Forse l’Italia è ancora in tempo per salvare qualcuno dei suoi interessi in Libia.

Ma per farlo, a Roma bisogna prendere delle decisioni. Adesso. Le proteste popolari del 2011 e l’intervento della NATO, promosso da francesi e inglesi con poco convincenti argomentazioni umanitarie, hanno travolto il regime di Gheddafi, facendo esplodere violenze di ogni tipo e frantumando il panorama politico locale. Nonostante l’importanza strategica della Libia, i Governi italiani hanno preferito accodarsi alle decisioni degli alleati atlantici oppure trascurare l’antica colonia, fino a dimenticarne l’esistenza.

Quasi che la presenza di un failed State a meno di 200 miglia nautiche dalle coste della Sicilia non riguardi Roma, che pure ne avverte chiaramente le conseguenze, dai flussi di disperati diretti in Europa ai rischi per la nostra sicurezza energetica, dalla proliferazione di gruppi islamisti alla crescente influenza di potenze attratte dalle ricchezze del sottosuolo e dalla posizione geografica della Libia.
L’Italia è l’unico Paese europeo a mantenere aperta e funzionante la propria rappresentanza diplomatica a Tripoli, attualmente guidata dall’ambasciatore Buccino Grimaldi.

Inoltre, non sono rare le visite da Roma, come quelle dei ministri della Difesa e degli Esteri, Lorenzo Guerini e Luigi Di Maio, dello scorso mese di agosto. Tali incontri sono stati spesso seguiti da viaggi in Italia di personalità di spicco del Governo di Accordo nazionale (Gna) con sede a Tripoli, presieduto da Fayez al Sarraj e riconosciuto dall’Onu. Questo è avversato dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk e combattuto dall’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, di stanza a Bengasi.

Eppure, alla continuità del dialogo tra Roma e Tripoli non corrisponde una chiara volontà dell’Italia di occupare ancora una posizione di rilievo tra i partner di quella che fu la nostra Quarta Sponda. Per rivestire un ruolo di qualche peso nel futuro della Libia, dobbiamo partire dalle basi, cioè dall’individuazione degli obiettivi da raggiungere ed essere pronti, se necessario, ad affrontare dei rischi e a sostenere dei costi per difendere i nostri interessi.

Questi non riguardano soltanto le forniture di idrocarburi e il contenimento dei flussi di migranti, ma anche, ad esempio, la partecipazione di imprese italiane all’opera di ricostruzione del Paese e alla realizzazione di infrastrutture necessarie allo sviluppo oppure la creazione, in una prospettiva di più lungo periodo, di opportunità di investimento nel turismo, nei trasporti e nell’agroalimentare. Ma la posta in gioco più rilevante è legata al futuro politico della Libia, ancora dominato da profonda incertezza. Per l’Italia è importante impedire qualsiasi soluzione che preveda una separazione tra Tripolitania e Cirenaica per evitare che quest’ultima diventi una sorta di appendice dell’Egitto, dipendente dalle decisioni del Cairo e dei suoi alleati del Golfo, mentre la prima cada nell’abbraccio asfissiante della Turchia, con la quale Sarraj ha stipulato un accordo, poco più di un anno fa, ricevendo cospicui aiuti militari.

La disputa tra Gna e generale Haftar non è vicina a una soluzione, anche se alcuni segnali sono incoraggianti. L’8 dicembre scorso, nella città di Ghadames, non lontana dal confine con Algeria e Tunisia, i membri dei Parlamenti di Tripoli e di Tobruk, separati da più di cinque anni, si sono riuniti per la prima volta in una sessione formale congiunta, insieme a rappresentanti di diverse forze politiche. Tale incontro ha fatto seguito alla riunione di Tangeri, svoltasi a fine novembre, durante la quale i deputati delle due Camere hanno giurato di essere pronti a porre un termine alle divisioni del Paese e a lavorare congiuntamente per organizzare elezioni parlamentari e avviare la transizione democratica, che le consultazioni del 25 giugno 2014 non erano state in grado di assicurare. In questo momento non è possibile dire se si tratti di un passo concreto verso la riconciliazione nazionale, ma la portata simbolica dell’evento non può essere trascurata né sono da sottovalutare gli sviluppi nella medesima direzione dell’accordo di cessate il fuoco, siglato a Ginevra il 23 ottobre di quest’anno. L’intesa è stata firmata in occasione del meeting del Comitato militare congiunto 5+5, al quale hanno preso parte le delegazioni di Tripoli e Bengasi, che si sono mostrate disposte ad avviare un dialogo per l’istituzione di forze militari e apparati di sicurezza unificati.

Nonostante le reciproche accuse, gli scontri tra i due campi restano circoscritti e non può essere escluso che la data delle elezioni del 24 dicembre 2021, fissata dal Forum di dialogo politico sotto l’egida delle Nazioni unite, possa essere rispettata. In tale quadro politico in continua evoluzione, l’Italia non deve restare indifferente. Il rischio è che le altre potenze, dopo aver approfittato del caos libico per esercitare la loro influenza sul Paese nordafricano attraverso aiuti di vario tipo ai diversi contendenti, impongano il loro peso sul piano politico ed economico, escludendo Roma.

La cautela dei Governi italiani verso la Libia, determinata anche dal timore di perdere consensi per via dei costi umani e finanziari di qualsiasi intervento invisi all’pubblica, non è più sostenibile. A meno che non accettiamo l’idea di lasciare ad altri quel patrimonio di interessi, relazioni e opportunità acquisito negli ultimi decenni, nonostante la retorica antitaliana degli anni di Gheddafi, già in buona parte eroso dall’atteggiamento di Roma dell’ultimo decennio. Ma non tutto è perduto. Una volta messa in chiaro la portata degli interessi italiani e il contributo che il nostro Paese può dare alla rinascita della Libia, non dovrebbe essere difficile raccogliere le energie da investire nell’antica colonia. Anche perché altri Paesi lo stanno già facendo al posto nostro e sono pronti a raccogliere i frutti dei loro investimenti. Non tutto è perduto, ma bisogna agire subito e con decisione. Svegliati, Roma!