Gli arabi chiamano Bab el Mandeb lo stretto che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden. Il nome di questo angusto passaggio, costantemente battuto da venti gagliardi e punteggiato di scogli taglienti, rocce affioranti e isolette disabitate, evoca foschi presagi in chi ne conosce la traduzione. Bab el Mandeb significa infatti “porta del lamento funebre”. Secondo una leggenda medievale tramandata dal geografo Yaqut, questo toponimo deriverebbe da un monte dello Yemen, un tempo unito alla costa africana prima che un potente re ne decidesse il distacco. Altri autori sostengono che sia stata la pericolosità della navigazione e i numerosi naufragi a indurre le genti del posto a scegliere un nome tanto lugubre. La geografia ha voluto che per Bab el Mandeb passi una delle arterie del commercio mondiale che gli houthi ora minacciano. Per l’Italia è un altro campanello d’allarme che non può essere ignorato.

Sono soltanto 17 le miglia nautiche che qui separano la Penisola Araba dall’Africa. Gli analisti di questioni internazionali chiamano colli di bottiglia – choke point secondo la versione inglese – questi passaggi obbligati e strategici lungo le principali rotte marittime globali. E Bab el Mandeb ha tutte le caratteristiche per essere tale. Una portacontainer in partenza da un porto qualsiasi della Cina impiega due settimane di navigazione in più a raggiungere il Pireo se obbligata a doppiare il Capo di Buona Speranza. Un po’ meno per arrivare negli scali marittimi del Nord Europa. È da metà novembre dello scorso anno che questa rotta, considerata ormai secondaria, ha riacquistato importanza, dopo che il transito nel Mar Rosso si è fatto pericoloso. Cioè da quando il movimento politico-militare degli houthi ha iniziato a colpire i mercantili diretti verso Israele o a esso collegati come ritorsione per l’attacco a Gaza ancora in corso.

La condanna degli occidentali, accusati di sostenere lo Stato ebraico in maniera acritica, ha indotto gli houthi a estendere le operazioni. I missili e i droni forniti dagli iraniani bersagliano i mercantili che fanno la spola tra l’Estremo Oriente e l’Europa. Obbligando le compagnie di navigazione a modificare le rotte per passare a largo del Sudafrica. La chiusura del Mar Rosso ha determinato un’impennata dei noli dei container, dei costi di assicurazione e un aumento del prezzo del petrolio. Per ora, non si è innescata alcuna spirale inflattiva simile a quella dei mesi successivi all’aggressione russa ai danni dell’Ucraina. Ma per l’Europa un rischio del genere è dietro l’angolo qualora la situazione dovesse prolungarsi. Mantenere aperte e sicure le rotte lungo la direttrice Bab el Mandeb-Suez-Gibilterra è dunque fondamentale. Soprattutto per l’Italia, che dipende per quasi la metà del suo import-export da questa linea ed è priva di affaccio sull’Atlantico.

Gli houthi sfruttano a proprio vantaggio la collocazione geografica dei territori sotto il loro controllo e, dietro la bandiera del sostegno alla causa palestinese, perseguono obiettivi interni e degli sponsor all’estero. Il loro coinvolgimento nella guerra civile che insanguina lo Yemen dal 2014 li ha visti occupare quasi tutta la parte nord-occidentale del Paese e resistere, con il sostegno politico, finanziario e militare di Teheran, ai massicci bombardamenti della coalizione di Stati arabi sotto la guida saudita, condotti fin da marzo del 2015. Allora come oggi, interessi esterni e questioni locali si intersecano in un groviglio sempre più intricato fino a strozzare la rotta che, fino a poche settimane fa, vedeva il passaggio del 12 % delle merci scambiate a livello globale.

Tale scenario di crisi non è slegato dai cambiamenti in corso nel sistema internazionale. Sono ormai quasi due anni che appare chiaro come gli equilibri di potere nel mondo siano entrati in una fase di profonda trasformazione. La guerra russo-ucraina ha però solo reso evidente quanto era in gestazione già da tempo. L’indisponibilità e l’incapacità degli Stati Uniti di garantire la solidità dell’ordine mondiale di cui sono sempre meno l’architrave ha messo in moto o accelerato fenomeni destinati a ridisegnare il sistema internazionale secondo fattezze ancora avvolte in una fitta nebbia. La crescente competizione strategica tra Washington e Pechino, le ambizioni di grandi e medie potenze non più frenate dall’invalicabile deterrenza americana di un tempo e l’indisponibilità di una parte sempre più ampia del mondo a riconoscere nel sistema politico ed economico occidentale un modello da desiderare e imitare, ci pongono minacce e sfide.

La crisi del Mar Rosso è per l’Italia solo l’ultimo di tanti campanelli d’allarme che sarebbe autolesionista ignorare. I tempi sono cambiati e continuare a fare finta di niente ci espone al rischio di essere impreparati a fronteggiare i problemi ormai chiari sotto i nostri occhi. Per decenni abbiamo beneficiato dell’ombrello protettivo a stelle e strisce, vivendo in questo mondo senza troppo preoccuparci di una sicurezza che sapevamo essere garantita da Washington. È stato così per tutto il tempo del mondo bipolare. E le cose non sono cambiate più di tanto dopo che gli americani si sono trovati improvvisamente, con loro grande sorpresa, unica superpotenza orfana dell’amato rivale sovietico. Ora non è più così. Gli Stati Uniti non hanno più la voglia né i soldi per accollarsi tutti i costi della protezione degli europei. Non siamo certo del tutto indifesi, ma ci viene ora chiesto di fare la nostra parte.

Washington paga l’impegno militare in contesti lontani e diversi tra loro, che drenano risorse consistenti. Il problema non è però tanto di natura economica quanto di ordine sociale. Gli americani, pur non essendo mai stati così ricchi e benestanti come oggi, non sono forse mai apparsi così depressi e confusi. Quasi che un mal de vivre alla Baudelaire abbia minato le fondamenta della tradizionale fiducia nel futuro trasmessa dai primi coloni della costa atlantica. Ne sono testimonianza la crescente conflittualità interna, la polarizzazione delle forze politiche sempre meno convinte della possibilità del compromesso, l’individualismo parossistico.

Tutto questo sfocia in gravi problemi sociali, come la crisi degli oppioidi che risucchia la vita di milioni di americani, e in tensioni domestiche capaci di ripercuotersi sulla postura internazionale del Paese. In tempi come questi, si rafforzano le tendenze isolazionistiche da sempre presenti nella società americana e basate sul sogno effimero di potersi disinteressare del resto del mondo, godendo dei frutti di una terra sterminata e protetta da due oceani, confinante con due vicini tutto sommato innocui.

Queste brevi considerazioni sullo stato di salute della superpotenza a stelle e strisce sono funzionali a mettere in risalto l’urgenza per gli europei di cambiare approccio verso i temi della difesa e della sicurezza. Non è più possibile fare affidamento totale su Washington e bisogna sviluppare la consapevolezza necessaria per vivere in un mondo sempre più pericoloso. La questione è ancora più urgente per l’Italia, che manca di cultura strategica, ravvisando in essa il carburante delle disastrose avventure diplomatiche e militari della prima metà del secolo scorso. Quasi come se il pensiero strategico e la tutela dei nostri interessi siano soltanto altre facce del più volgare e meschino nazionalismo. Se poi i aggiungiamo che una società sempre più anziana come la nostra è più incline all’introversione, è breve il passo per dimenticarsi di vivere al centro di una regione oggetto degli appetiti altrui e attraversata da profonde faglie di tensione.

Eppure, Roma dovrebbe essere concentrata giorno e notte su quanto accade intorno a noi. Nonostante le crescenti difficoltà e i segni di stanchezza, restiamo un Paese manifatturiero che però è privo di risorse. È quindi nostro interesse che le linee di approvvigionamento delle materie prime e dell’energia nonché i canali di distribuzione dei prodotti della nostra industria non si interrompano. Allo stesso tempo, è nostro interesse vivere in un intorno sufficientemente stabile e sicuro, senza che attori potenzialmente ostili siano in grado di esercitare pressioni inaspettate e indesiderate. Sono queste le considerazioni di base che non possiamo più evitare di fare. Pena un inesorabile e triste declino e un inaccettabile deterioramento della nostra sicurezza. Il corollario di tali valutazioni di base è l’urgenza di investire molte più risorse ed energie nella nostra difesa. Anche pagando il prezzo dell’impopolarità di certe decisioni.

Il vento del populismo sparge i suoi semi ovunque e in ogni caso. Non bisogna sorprendersi se chi suoni l’allarme per destare le coscienze dinanzi alle sfide del presente possa vedersi accusato di voler sperperare i pochi soldi disponibili in giocattolini da guerra tanto costosi quanto inutili. Il mantra è sempre quello di non sottrarre risorse destinate a istruzione, sanità e previdenza. Tutte cose sacrosante e necessarie. Ma non è possibile ignorare che ragionare con gli schemi validi fino a pochi anni fa è pericoloso oggi. A meno di non accettare il rischio che potrebbe venire il giorno in cui la scuola e gli ospedali ci serviranno a ben poco dinanzi a scenari ritenuti da molti ancora impensabili. Non si tratta di fare allarmismo, ma di affrontare il presente con maturità e consapevolezza. Anche perché non ci si può aspettare che siano altri a proteggere i nostri interessi.

Il primo passo da fare è dunque capire quello che vogliamo fissando degli obiettivi da raggiungere che potremmo anche sforzarci di chiamare con il loro nome, cioè interessi nazionali. Dobbiamo poi agire in maniera coerente per il loro perseguimento, pronti a pagare il prezzo necessario se ci dovesse essere richiesto. Questo implica gettare il nostro peso politico, economico, diplomatico e militare lì dove serve a noi, e non ad altri. Anche perché la scena internazionale resta fondamentalmente un’arena di competizione rude e primitiva. E non possiamo aspettarci che gli altri, anche se nostri alleati, agiscano in modo contrario ai loro interessi per consentirci di realizzare i nostri.

Siamo una potenza ormai in declino da qualche decennio. Il peso dell’Italia è modesto questo non significa che sia trascurabile. Perché allora non utilizzarlo per un sano approccio strategico alla realtà? La crisi a Bab el Mandeb non danneggia forse i nostri interessi? Spendiamoci dunque per contribuire a trovare una soluzione, senza velleità né idealismi. La realtà ci sta dicendo in tutti i modi che nascondere la testa nella sabbia non paga mai. Anche perché se non siamo noi a scegliere come vogliamo il nostro avvenire saranno altri a farlo al posto nostro. Che ci piaccia oppure no.

Foto: www.en.majalla.com

Fonti e approfondimenti

Questo articolo è frutto della riflessione personale sulla base delle notizie di cronaca alle quali si rimanda per la descrizione della crisi in corso nel Mar Rosso.