“Con la nostra vittoria si sono aperte le porte del secolo della Turchia”, affermava esultante Recep Tayyip Erdoğan la sera del 28 maggio scorso, a seguito della vittoria al secondo turno delle elezioni presidenziali contro Kemal Kılıçdaroğlu. Le parole del capo dello Stato appena riconfermato hanno avuto un’eco ben al di là della folla di sostenitori, in tripudio davanti alla sua casa nel distretto di Fatih a Istanbul. L’intera nazione turca ha immediatamente capito che Erdoğan stava richiamando il passato per scrivere il futuro del suo Paese. Il riferimento storico è alla nascita della Repubblica turca, proclamata il 29 ottobre di cento anni fa da Mustafa Kemal Atatürk. Quanto all’avvenire, il messaggio è chiaro: i turchi si sono ripresi dallo shock di non essere più i padroni di un grande impero e sono pronti a riconquistarsi il loro legittimo posto nel mondo.

Tale approccio accomuna la maggioranza delle forze politiche, unendo laici e religiosi, conservatori e progressisti, militari e politici, dalle coste dell’Egeo alle profondità dell’Anatolia. L’assertività di Ankara sul piano internazionale è coerente con il desiderio turco di lasciarsi alle spalle le umiliazioni seguite alla sconfitta nella prima guerra mondiale e al crollo dello Stato ottomano. Ed è così che i turchi stanno ridisegnando equilibri apparentemente consolidati nel Mediterraneo, in Africa, in Medio Oriente e in Asia centrale. L’Italia è stata colta di sorpresa, mescolando un certo sgomento a tanta indifferenza dinanzi alle ambizioni di Ankara. Quasi che l’ascesa del gigante anatolico non ci riguardi e non tocchi i nostri interessi nei mari che ci circondano e nelle terre da essi bagnate. Modificare il nostro approccio verso la Turchia non solo è doveroso, ma necessario. Anche perché potrebbero aprirsi inattesi margini per rapporti più solidi e reciprocamente vantaggiosi.

A Roma, il segnale che qualcosa stesse cambiando nel quadrante levantino è arrivato a maggio del 2020. Nelle settimane difficili della pandemia da Covid-19, giunse la notizia che la volontaria milanese Silvia Romano, rapita a novembre del 2018 in Kenya dai terroristi somali di Al Shabaab, era stata liberata. La nostra intelligence si era occupata del caso, ma con il determinante intervento dei servizi segreti turchi. Era la dimostrazione plastica dell’influenza acquisita da Ankara nel Corno d’Africa, dove pure l’Italia, dopo la parentesi coloniale, aveva conservato per anni un certa influenza. Indicazioni, questa volta meno piacevoli, del cambio di passo dei turchi erano arrivate negli anni precedenti. Navi di Saipem impegnate in prospezioni petrolifere in acque cipriote, che la Turchia considera di pertinenza della Repubblica di Cipro Nord, non riconosciuta dalla comunità internazionale, erano state obbligate a interrompere le loro attività a seguito dell’intervento di unità militari di Ankara.

Ma la percezione più evidente delle intenzioni dei turchi l’abbiamo in Libia. Nella primavera del 2019, il generale e signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, si preparava a cingere d’assedio Tripoli, nel tentativo di impadronirsi di tutto il Paese. Il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Fajez al Sarraj chiese aiuto a diversi alleati, tra i quali Roma e Ankara. Mentre dall’Italia giunse solo un assordante silenzio, dalla Turchia arrivarono subito consistenti rifornimenti militari, truppe regolari e mercenari siriani. In pochi giorni, Haftar dovette ritirarsi e abbandonare i suoi piani sulla Tripolitania. Intanto i turchi già si preparavano a riscuotere i frutti della loro tutt’altro che disinteressata generosità. A novembre, Tripoli e Ankara firmarono un memorandum per la definizione dei rispettivi confini marittimi, gettando de facto le basi per rendere la presenza turca in questa parte del Nord Africa stabile e duratura.

L’azione internazionale di Ankara non è frutto della casualità, ma risponde alle esigenze di una politica di prestigio e di potenza. I due fari teorici che ne orientano la direzione sono le dottrine complementari della “profondità strategica e della “patria blu”. La prima è stata definita da Ahmet Davutoğlu, professore di relazioni internazionali all’università di Beykent a Istanbul, poi alla guida della diplomazia turca dal 2009 al 2014 e primo ministro nel biennio successivo. Davutoğlu ha sviluppato e sistematizzato il pensiero di Turgut Özal, capo del governo e poi presidente della Repubblica tra il 1983 e il 1993. Quarant’anni fa, l’eminente politico turco partiva dalla considerazione che il suo Paese, collocato in posizione strategica a cavallo tra Europa e Asia, non poteva più limitarsi alla protezione dei confini. Era necessario aprirsi al resto del mondo, rafforzando i rapporti con gli alleati della NATO, ma guardando anche altrove.

Özal riteneva che Ankara dovesse sfruttare i legami culturali e religiosi con i popoli un tempo soggetti all’impero ottomano per tornare nei Balcani e in Medio Oriente. Il crollo dell’Unione Sovietica rimosse i vincoli del mondo bipolare e aprì nuove prospettive anche verso le neonate repubbliche dell’Asia centrale, nel nome del panturanismo. Davutoğlu parte da tali presupposti e fa alcuni passi in avanti. Innanzitutto, l’appartenenza al sistema di alleanze facente capo agli Stati Uniti, pur non essendo messa in discussione, assume i caratteri di mera convenienza. La Turchia deve cominciare a considerare se stessa non più come pedina in mani altrui, chiamata a vigilare sul confine sud-orientale dello schieramento atlantico. Ankara è un soggetto geopolitico con un grande potenziale, che può sfruttare quanto di buono lasciato dagli ottomani nella memoria collettiva degli altri popoli e le affinità etniche e linguistiche per creare la propria zona di influenza.

Tale impostazione è espressione della volontà di un Paese che si considera una media potenza regionale impegnata a costruire il proprio “giardino di casa”. Il salto di qualità per fare della Turchia un soggetto di primaria grandezza nello scacchiere internazionale arriva quando Ankara si è resa conto di non poter realizzare le proprie ambizioni senza considerare la dimensione marittima. È in questo scenario che la Turchia intende avventurarsi verso limiti inesplorati dall’epoca ottomana. I turchi, per storia e indole, sono una nazione terragna, poco abituata a sfidare le onde. La marina dei sultani di Costantinopoli è arrivata molto dopo la conquista dell’Anatolia. Spesso, i comandanti della flotta imperiale provenivano dai possedimenti balcanici o addirittura dalle potenze cristiane del Mediterraneo occidentale. Emblematica è la storia affasciante e avventurosa del calabrese Occhialì o Occialì (storpiatura di Uluç Ali, ovvero Ali il rinnegato), che divenne un grande ammiraglio ottomano nel XVI secolo.

La consapevolezza di dover superare questa pesante limitazione emerge all’inizio degli anni Duemila. La conquista del mare è fondamentale per gettare un ponte verso l’Africa e acquisire una proiezione oceanica, senza la quale nessuna grande potenza può definirsi tale. Come l’Italia, anche la Turchia ha un interesse primario a non essere strangolata nel Mediterraneo. Ecco perché l’attenzione verso il sistema di stretti Bab el Mandeb-Suez-Gibilterra via Stretto di Sicilia è particolarmente elevata ad Ankara. Restano però irrisolti i problemi con la Grecia e le sue isole prospicienti l’Anatolia. I turchi continuano a chiedere che le frontiere marittime tra i due Paesi e le rispettive zone economiche esclusive siano definite secondo una linea mediana calcolata a partire dal territorio continentale. Di conseguenza, Atene dovrebbe conservare soltanto le acque territoriali intorno alle isole più vicine alle coste turche.

Tutte queste considerazioni sono state sistematizzate nella dottrina della “patria blu”, mavi vatan in turco, elaborata dagli ammiragli Cem Gürdeniz e Cihat Yaycı. La teoria si è trasformata nel motore dell’agenda geopolitica di Ankara, togliendo spazio ad altri vettori della sua azione internazionale, comprese le politiche finalizzate a consolidare un hinterland strategico. Non a caso, lo scontro con i generali dell’esercito, abituati a vedere la loro forza armata al centro del sistema militare turco, è stato aspro. Alla fine, i circoli del potere hanno capito che la conquista del mare è determinante per dare forma alle aspirazioni della Turchia. Per raggiungere l’obiettivo, è necessario dotarsi di una Marina con capacità operative e dimensioni maggiori, superando definitivamente la dimensione di pattugliamento costiero nella quale essa era stata relegata per decenni. E Ankara sembra avere tutte le intenzioni di agire in tal senso.

Il primo teatro di espressione della nuova postura internazionale della Turchia è dunque il Mediterraneo. Questo mare – l’1 % della superficie liquida globale attraversato dal 20 % del commercio mondiale – è un condominio piccolo e affollato. Era quindi inevitabile che l’ascesa turca finisse, prima o poi, per sovrapporsi agli interessi dell’Italia. Accade in Libia, dove ormai ben poco si può fare senza il consenso di Ankara. Succede un po’ in tutto il Levante, sede di molti interessi economici, energetici e politici di Roma. Si sta verificando nei Balcani, cioè sulle coste e nelle terre giusto al di là dell’Adriatico, che nelle giornate nitide d’inverno si vedono chiaramente dalle spiagge del Salento e del Gargano. Ed è innegabile che stiamo perdendo terreno.

Come mai? La ragione di fondo è la stessa di tutti i casi in cui i nostri interessi arretrano dinanzi all’assertività di altri attori. Roma non è abituata a ragionare in modo strategico e come sistema Paese. Il disinteresse verso temi solo apparentemente privi di conseguenze sulla vita e sul futuro dell’Italia si mescola poi a divisioni che spesso sono espressione di ataviche gelosie locali. A questo, si aggiunge il dato demografico, che condanna senza appello la società italiana a essere sempre più vecchia. Entro la fine di questo secolo, rischiamo di avere una popolazione pari a poco più della metà di quella del 2000. Già abbiamo un’età mediana di 46 anni e il dato è destinato inevitabilmente a peggiorare. Il confronto con la Turchia, con il 42 % degli abitanti che ha meno di 24 anni e un’età mediana di 29 anni, è impietoso.

Questi aspetti hanno importanti conseguenze sulla postura internazionale del nostro Paese. Una società anziana tende a conservare quanto acquisito, considerando inutile o addirittura dannoso avventurarsi in questioni percepite come di competenza altrui. Ne abbiamo dimostrazione tutte le volte in cui si dibatte sull’impiego delle nostre forze armate all’estero. Puntualmente arrivano le polemiche sulla necessità di impiegare le poche risorse disponibili in attività ritenute meno pericolose e più urgenti. Se poi ci aggiungiamo che chi la pensa in questo modo è più probabile che vada a votare, non sorprende la ritrosia delle forze politiche, sempre attente alla successiva scadenza elettorale, ad affrontare il tema dell’interesse nazionale. La carenza di un ragionamento di tipo strategico disorienta sia i nostri alleati che gli avversari.

In Turchia, prevale una concezione dell’Italia del tutto assente a casa nostra. Siamo percepiti come il Paese che, nonostante inequivocabili segnali di declino, è comunque riuscito, poco più di un secolo fa, a vincere gli ottomani, strappando loro la Libia e il Dodecaneso. I turchi hanno un’alta considerazione di loro stessi e la sconfitta nella guerra del 1911-12 suscitò risentimento ma anche ammirazione verso Roma. Il problema è che adesso non appare sempre chiaro quello che vogliamo e risulta difficile rapportarsi a noi quando si parla di conciliare interessi strategici in parte complementari.

Italia e Turchia potrebbero lavorare insieme per la stabilità del Nord Africa, soprattutto in Libia, così come pure nell’area balcanica. Stessa cosa per il Sahel e il Mar Rosso, anche per contrastare le ambizioni russe, potenzialmente dannose per entrambi i Paesi, e nel Levante. Questo non toglie che siamo in competizione anche negli scacchieri appena citati. Quello che però non è sostenibile e ci espone a rischi e minacce spesso ignoti all’opinione pubblica è la leggerezza con la quale l’Italia perde terreno. Tutti sanno che il regime di Gheddafi, al di là della retorica del rais, era funzionale ai nostri interessi energetici. Aver contribuito al suo crollo, voluto da potenze nostre alleate ma pronte a rafforzare la loro influenza nell’antica colonia a scapito dell’Italia, è proprio il segno della carenza di visione strategica del nostro Paese.

Un altro esempio coinvolge la Marina Militare. Siamo nel pieno del processo di territorializzazione del Mediterraneo. Gli Stati costieri ricorrono all’istituto della zona economica esclusiva (ZEE) per rivendicare la loro giurisdizione su tratti di mare che arrivano a lambire le coste italiane. È il caso dell’Algeria, che rivendica una ZEE spinta fino a ridosso di Oristano. Per difendere i nostri interessi marittimi e rafforzare la deterrenza abbiamo bisogno di una Marina di dimensioni maggiori di quelle attuali. È impensabile continuare ad andare avanti con 29.000 unità di personale e una flotta di meno di 120 navi. Per dare un’idea degli investimenti da fare, basti pensare che proprio la Turchia procede verso la creazione di una forza armata sul mare di 60.000 unità. E non si tratta qui di dare agli ammiragli o agli analisti di geopolitica dei giocattolini per le loro disquisizioni teoriche. È in gioco la sicurezza nazionale.

L’Italia deve capire che i tempi sono cambiati. Abbiamo bisogno di acquisire consapevolezza e maturità strategica per affrontare le sfide e cogliere le opportunità davanti a noi. Non è possibile continuare a ragionare con schemi del passato. In particolare, non possiamo più appaltare agli Stati Uniti la quasi totalità della nostra sicurezza. Dalla metà del secolo scorso, abbiamo fatto affidamento al nostro principale alleato per avere protezione, tranquilli che gli americani sarebbero venuti in nostro soccorso in caso di pericolo. Ora le cose non stanno più così. Washington è presa da altri problemi, soprattutto dalla competizione con la Cina nell’Indo-Pacifico. Inoltre, la superpotenza americana mostra segni di stanchezza ed è attraversata da fratture interne sempre più profonde, che ne affievoliscono la volontà di potenza. Dobbiamo cominciare a pensare che la nostra sicurezza va conquistata e difesa giorno per giorno. E non possiamo più pretendere che siano altri a occuparsene.

Solo passando attraverso un cambio radicale di mentalità saremo in grado di acquisire la consapevolezza che anche noi dobbiamo definire con precisione i nostri interessi e lavorare per la loro difesa e promozione. Fatto questo passo, per Roma sarà più facile rapportarsi in modo pragmatico all’ascesa della Turchia, definendo gli obiettivi che ci pongono in competizione con Ankara e le partite dove poter giocare fianco a fianco. Non possiamo incolpare gli altri Stati di atteggiamenti anti-italiani quando ci rendiamo conto di aver perso posizioni e di non aver fatto molto per difenderle. È segno di immaturità che, dopo più di un secolo e mezzo di unità nazionale, non è più tollerabile. Superato questo ostacolo, per l’Italia sarà più facile navigare nel mare tempestoso della contemporaneità con una bussola funzionante ed evitare lo sgomento di chi viene colto impreparato, come è accaduto con l’inizio del secolo della Turchia.

Foto: med-or.org

Fonti e approfondimenti

B. Cianci (a cura di), Vi spiego cos’è la Patria Blu, Limes n°7-2023

Open, Erdoğan festeggia la vittoria su un bus scoperto: ora comincia il secolo della Turchia, 28 maggio 2023;

L. Vita, L’onda turca. Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo, Historica Edizioni, 2021;

M. Ansaldo (a cura di), La Patria blu ne mondo post-occidentale, conversazione con l’ammiraglio Cem Gürdeniz, Limes n°7-2020;

L. Vita, Mavi Vatan: il sogno segreto del sultano, InsideOver, 22 agosto 2020;

F. Del Monte, Dalla “Profondità strategica” alla “Patria blu”: l’evoluzione del pensiero strategico turco, Geopolitica.info, 5 settembre 2020;

E. Pietrobon, Il ruolo della Turchia nell’ordine mondiale post pandemia, InsideOver, 2 maggio 2020;