La guerra civile yemenita fa parte dei numerosi conflitti dimenticati sparsi per il pianeta. Eppure, secondo le Nazioni Unite, nel Paese è in corso la peggiore crisi umanitaria degli ultimi decenni. Troppo poco evidentemente affinché le cancellerie occidentali se ne interessino. Ma sarebbe superficiale dimenticare del tutto lo Stato più povero delle Penisola araba, collocato in una posizione strategica e oggetto degli appetiti delle potenze mediorientali.

Fra pochi giorni ricorrerà il settimo anniversario dell’inizio della guerra. Lo scontro è il risultato del tentativo dei ribelli huthi, di confessione sciita zaydita, di estendere il loro controllo dai governatorati settentrionali all’intero Paese. Il gruppo armato si è costituito alla fine del secolo scorso intorno ad alcuni membri della famiglia dalla quale deriva il nome. I componenti dell’organizzazione, che amano definirsi “partigiani di Dio”, si dedicarono inizialmente ad attentati e azioni di guerriglia contro le forze del presidente Abdallah Saleh. Nel 2010 era stato raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, ma esso restò lettera morta, poiché l’onda lunga delle cosiddette primavere arabe travolse anche lo Yemen.

Le proteste popolari obbligarono il capo dello Stato a cedere il potere a Manusr Hadi, già vicepresidente, confermato nella carica alle elezioni del 2012. Gli huthi approfittarono della situazione di incertezza per organizzare un colpo di Stato e occuparono la capitale Sa’na e quasi tutto lo Yemen nord-occidentale. Il presidente, riconosciuto dalla comunità internazionale, fu costretto a rifugiarsi nella città di Aden. A fine marzo del 2015, una coalizione di Paesi arabi, guidata dall’Arabia Saudita, è intervenuta a sostegno di Mansur Hadi. Il soccorso al presidente era funzionale a impedire che lo Yemen scivolasse nella sfera di influenza dell’Iran, principale avversario di Riad nella regione.

Teheran finanzia gli huthi e li rifornisce di materiale bellico, consentendo loro di mantenere il controllo del territorio e organizzare attacchi ai danni dei sauditi. L’impiego di missili e droni, che vanno al di là delle capacità tecniche e produttive dei ribelli, permette di minacciare l’Asir e la città portuale di Gedda. Il regime degli ayatollah è impegnato da anni nella costruzione di un “crescente sciita”, esteso dal confine con il Pakistan alle coste libanesi e siriane. E uno Yemen nell’orbita iraniana renderebbe insicura la frontiera meridionale di Riad. Ecco perché i sauditi, con gli Emirati Arabi Uniti come principale alleato, hanno condotto migliaia di operazioni, soprattutto raid aerei. L’Onu stima che le incursioni abbiano provocato 18.000 vittime civili tra morti e feriti, senza però distruggere il potere dei ribelli. Le asperità delle regioni montuose, infatti, offrono ripari e rendono poco efficace l’impiego dell’aviazione.

Negli ultimi mesi, l’Iran ha utilizzato la proiezione geopolitica in Yemen per esercitare pressioni sui sauditi. L’obiettivo è di impedire loro di boicottare i negoziati con gli Stati Uniti sul programma nucleare degli ayatollah. Tale azione sembra produrre gli effetti sperati, mentre Riad è costretta a misurarsi con il bilancio di sei anni di guerra agli huthi e con l’atteggiamento dell’amministrazione Biden, diverso da quello di Trump.

L’intervento in Yemen ha bruciato consistenti risorse economiche e militari, che il regno riesce a fronteggiare con difficoltà crescente. L’incapacità di ridurre la dipendenza dall’esportazione di idrocarburi, nonostante i programmi di differenziazione dell’economia voluti dal principe ereditario e sovrano de facto, Muhammad bin Salman, rende lo sforzo bellico sempre più gravoso e difficile da giustificare dinanzi all’opinione pubblica. Inoltre, il nuovo presidente americano, in maniera coerente con l’orientamento del suo partito, non è disposto a ignorare la questione della compressione dei diritti a Riad né le vittime civili provocate dalle incursioni in Yemen. Tutto questo si è tradotto in un crescente senso di insicurezza dei sauditi. Tale sentimento è accresciuto dalla limitazione alla vendita di alcuni armamenti, voluta da Biden, nonché dalla sensazione di godere sempre meno del deterrente americano in Medio Oriente, come conseguenza del progressivo disimpegno degli Stati Uniti dalla regione.

Le strettoie sul piano interno e internazionale hanno forzato Riad ad abbandonare la logica della contrapposizione totale a Teheran. Da alcune settimane, sono in corso colloqui diretti tra le due parti, con l’Iraq nell’insolita veste di mediatore. Il premier di Baghdad, Mustafa al Kadhimi, ha sfruttato le buone relazioni del suo Paese con l’Iran e l’amicizia personale con bin Salman per favorire il dialogo, in vista di una possibile tregua, anche se temporanea, tra i due avversari, più subita che desiderata dall’Arabia Saudita. Questa deve affrontare anche la crescente autonomia di Abu Dhabi, sempre meno disposta a sostenere il principale alleato senza riceverne un tornaconto.

Il cambiamento dell’atteggiamento emiratino è emerso con chiarezza proprio in Yemen. Nell’agosto del 2019, violenti scontri hanno opposto le forze del presidente Mansur Hadi alle formazioni del Consiglio di Transizione Meridionale. Questa organizzazione politica secessionista rivendica l’indipendenza del sud del Paese, secondo confini che ricalcano la vecchia divisione tra la Repubblica araba dello Yemen e la Repubblica democratica popolare dello Yemen, riunite in un unico Stato nel 1990.

Abu Dhabi ha appoggiato le richieste degli indipendentisti, intravedendo un’occasione per meglio difendere dei suoi interessi. Esercitare un’influenza più salda sullo Yemen meridionale significa avere un accesso privilegiato ai porti strategici di Aden, Mokha e Al Mukalla. Inoltre, gli Emirati vogliono incidere sui delicati equilibri dello stretto di Bab al Mandab. Questo connette il Mar Rosso al Mare Arabico e vi transitano ogni giorno 5 milioni di barili di petrolio e miliardi di dollari di merci. Il Paese del Golfo guarda con interesse anche alle acque pescose intorno all’isola di Socotra, collocata in una posizione unica di accesso all’Oceano Indiano. Suscita appetiti anche la possibilità di sfruttare ricchi giacimenti di gas e petrolio, in larga parte ancora inesplorati. La prospettiva di conseguire vantaggi di tale portata ha indotto gli Emirati quasi ad azzerare il contributo agli sforzi della coalizione contro gli huthi.

Nel Paese che fu la terra ricchissima della regina di Saba e del commercio dell’incenso si intrecciano dunque profonde fratture interne e interessi stranieri. La guerra civile, che ha mietuto più di 200mila vittime, è a un punto morto. I ribelli, forti del sostegno iraniano e della debolezza saudita, mostrano intransigenza dinanzi ai tentativi di mediazione del vicino Sultanato dell’Oman e delle Nazioni Unite. Queste da poco hanno nominato un nuovo inviato speciale per lo Yemen. Si tratta del diplomatico svedese Hans Grundberg, che subentra al britannico Martin Griffiths. Ma le prospettive di arrivare a una svolta sono remote.

Recentemente sono riprese le dispute tra huthi e forze governative anche in merito al controllo dei principali porti del Paese, dai quali transitano tutti gli aiuti umanitari. La riattivazione dello scalo di Mokha, dopo sette anni di inattività ha suscitato invidie sui proventi dei dazi, con il rischio di nuove violenze. Da settimane gli scontri armati proseguono nel governatorato di Ma’rib. Si tratta dell’ultima roccaforte nello Yemen centro-settentrionale in mano alle forze filo-governative, dove si concentra il 60 % degli sfollati del Paese. A questo panorama già desolante si aggiungono le organizzazioni radicali islamiche. Al Qaeda nella Penisola arabica è attiva nell’area dal 2009. Il gruppo jihadista salafita controlla parte delle aree più remote dell’entroterra, soprattutto nell’Hadramawt, avvalendosi della protezione e del sostegno dei clan locali. Sono attive anche cellule di Daesh, che in passato hanno organizzato diversi attentati contro moschee huthi.

Non si intravedono speranze di pace per questo Paese dalla cultura plurimillenaria, che i romani chiamavano Arabia felix. La presenza di interessi divergenti non facilita l’individuazione di una via d’uscita dalla crisi. Gli Stati Uniti sono l’unica potenza in grado di mettere fine alla guerra. Essi possono includere la fine del sostegno agli huthi tra le condizioni per negoziare un nuovo accordo sul nucleare. E Teheran potrebbe accettare poiché, nonostante la propaganda, ha bisogno della tregua con Washington per alleggerire le sanzioni, che da cinque anni ne strozzano l’economia. Quanto ai sauditi e agli emiratini, per gli americani non dovrebbe essere troppo difficile convincerli ad abbandonare i loro disegni. Magari in cambio di qualche concessione alle loro velleità in scacchieri diversi da quello yemenita. In questo modo, i contendenti locali sono privati dei loro rispettivi sponsor, divenendo più inclini al compromesso e mettendo fine alla lunga notte dello Yemen.

Foto: oasiscenter.eu