Ai corsi di storia delle relazioni internazionali, si insegna che il Mediterraneo e l’area danubiano-balcanica costituiscono gli sbocchi tradizionali della politica estera del nostro Paese. È stato così fin dalla proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, e nel secolo successivo. Da circa tre decenni, però, Roma ha perso di vista gli Stati affacciati sull’Adriatico orientale e dell’entroterra. Eppure, essi rappresentano il nostro estero più vicino e hanno un valore strategico per la difesa e la promozione degli interessi nazionali. Se l’Italia arretra, altri attori avanzano nella regione. Ma non tutto è perduto. A patto che il Paese e la sua classe dirigente escano dal torpore, capendo che una parte del nostro futuro dobbiamo scriverla nel Balcani. Altrimenti saranno altri a farlo per noi.

La presenza italiana lungo le coste dalmate, montenegrine e albanesi affonda nelle nebbie dei tempi passati. Senza arrivare all’ecumene adriatico di epoca romana, Venezia ha dominato per secoli su quei tratti di mare, costruendo villaggi, fortezze e porti. Anche quando ottomani e austriaci si sono assicurati il controllo di quelle terre, i legami economici, culturali e religiosi delle comunità locali con la Penisola non sono venuti meno.

Nella prima metà del XX secolo, l’attenzione dell’Italia per l’area è divenuta quasi spasmodica. L’apice è stato raggiunto nel parossismo dell’occupazione fascista dell’Albania e dell’aggressione alla Grecia e alla Jugoslavia. Durante la guerra fredda, poi, l’Adriatico rappresentava un punto di frizione tra il mondo occidentale e il blocco comunista, più o meno allineato con Mosca. E i margini di manovra per l’Italia, una volta medicate le ferite del confine orientale, erano limitati dalle strettoie rassicuranti della politica bipolare. Successivamente, Roma ha dimostrato di non aver dimenticato l’Europa balcanica. Le iniziative politiche sono state affiancate e supportate dall’intraprendenza di molti imprenditori. Nel solco degli antichi legami mercantili, essi hanno trovato nei mercati dell’Adriatico orientale uno sbocco per i loro prodotti. Ma anche un tessuto economico adatto a delocalizzare una parte della produzione.

Era il 1989 quando il ministro degli Esteri, Gianni de Michelis, lanciò l’iniziativa del Qadrangolare. Questo riuniva Italia, Austria, Ungheria e Jugoslavia, rispondendo alla volontà di Roma di avere un ruolo nella stagione del crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo. Il forum fu allargato successivamente alla Cecoslovacchia e alla Polonia. Con la dissoluzione della Jugoslavia, l’organizzazione cambiò nome in Iniziativa centro-europea e si estese fino a comprendere Paesi come Ucraina e Bielorussia. Nel 2000, sempre su impulso italiano, è nata l’Iniziativa Adriatico-Jonio, con la partecipazione degli Stati affacciati sui due mari. Le organizzazioni erano espressione proprio di quella politica danubiano-balcanica, tanto cara alla nostra tradizione diplomatica. Ma lo scorrere del tempo e degli eventi e l’ingresso di diversi membri nell’Unione europea hanno smussato il carattere innovativo delle due iniziative. A questo si aggiunge la lunga fase di sostanziale e colpevole inconsistenza della nostra politica estera negli ultimi decenni.

La proiezione geopolitica italiana nella regione che va dalle coste dalmate alle pianure del bacino carpatico è dunque svanita quasi del tutto. Resta ancora importante la dimensione economica, con Roma primo partner commerciale dell’Albania e secondo di Paesi come Croazia, Serbia e Romania. Ma anche in tale ambito stiamo perdendo terreno. La crisi economica ha pesato sul tessuto produttivo nazionale, diradandolo e affievolendo la capacità di molti imprenditori di guardare al di là dei confini. Anche se i mercati balcanici restano ricchi di opportunità per gli investimenti e l’Italia. Il nostro Paese conserva ancora un patrimonio di know how industriale non trascurabile e apprezzato. Anche perché, dai prodotti manifatturieri alle infrastrutture, offriamo spesso un rapporto qualità/prezzo di gran lunga migliore rispetto ai tedeschi, ai turchi o ai cinesi.

In geopolitica il vuoto non esiste. Questo significa che se un player arretra, gli altri avanzano. Ed è proprio quanto sta accadendo nei Balcani, con l’Italia che perde posizioni e i nostri competitor che avanzano. I Paesi più attenti all’area sono la Germania e la Turchia. Altri Stati sono presenti, ma in forma più discreta oppure solo a difesa di interessi specifici, come le petromonarchie del Golfo, la Russia e la Cina.

Berlino considera i Balcani come parte della sua area di influenza. È stato così fin dalla nascita del Reich nel 1871, quando ampi territori erano ancora controllati da Vienna. Dopo la prima guerra mondiale, la creazione dell’Austria e dell’Ungheria indipendenti era funzionale anche a impedire che la Germania sconfitta, solo in parte ridimensionata dal punto di vista territoriale e industriale, avesse accesso diretto ai mercati del sud. La sconfitta nazista del 1945 e i limiti della politica bipolare obbligarono i tedeschi a disinteressarsi ai Balcani. Ma il crollo dei regimi comunisti riaccese l’interesse della Germania riunificata. Questa ha adottato una strategia che utilizza gli investimenti in infrastrutture come grimaldello per rafforzare la sua proiezione geopolitica. Nelle relazioni internazionali, solo l’Italia è di animo così nobile da pensare a missioni e interventi all’estero pro bono. Gli altri seguono invece la regola più logica del “do ut des”.

La Germania ricorre alla KfW, acronimo tedesco per Istituto di Credito per la Ricostruzione. La banca, con capitale interamente pubblico, nacque nel 1948 per la gestione dei fondi del Piano Marshall. Essa può essere paragonata alla nostra Cassa Depositi e Prestiti, ma il governo di Berlino non disdegna di utilizzarla come strumento per la sua politica estera. La KfW è molto arriva in diversi Paesi balcanici, erogando prestiti a tassi agevolati o risorse a fondo perduto nel quadro della cooperazione allo sviluppo. In questo modo la banca finanzia progetti per il potenziamento delle reti idriche ed elettriche e il miglioramento della obsoleta rete stradale di epoca comunista. Si tratta di infrastrutture spesso di importanza secondaria per dimensioni, ma con un impatto immediato sulla vita delle persone. In questo modo, i tedeschi stanno conquistando benemerenze e influenza politica dalla Bosnia alla Macedonia del Nord, dalla Croazia alla Romania.

Anche in Albania, tradizionalmente legata all’Italia da rapporti storici e culturali, Berlino si mostra particolarmente attiva. Il Paese è sempre più integrato nelle catene del valore tedesche e la lingua di Goethe tende a sostituire l’italiano come materia di studio. La prevalenza della religione musulmana è invece una porta d’ingresso spalancata per le ambizioni geopolitiche della Turchia di Erdoğan. Da alcuni anni, Ankara ha sviluppato un’azione internazionale più assertiva nel Mediterraneo, in Africa e in Asia centrale. Nei Balcani, i turchi giocano la carta dell’Islam, ma sfruttano anche il passato ottomano. Ankara, oltre ai progetti infrastrutturali, funzionali a rafforzare la sua attività commerciale, spende molte risorse nelle costruzioni religiose. Moschee, scuole coraniche e istituti culturali sorgono dal nulla in città e villaggi di Bosnia, Kosovo, Albania. Lo stesso accade in Bulgaria, dove i turchi costituiscono il secondo gruppo etnico.

Accanto alla dimensione economica e agli aspetti culturali, non può escludersi che Ankara possa concentrarsi anche sulle questioni militari. Già durante le guerre degli anni Novanta del secolo scorso, i turchi intervennero segretamente a sostegno di albanesi e kosovari, attivando la loro intelligence. Nel frattempo, la Turchia è stata molto attiva durante la pandemia di Covid-19. Attraverso i canali della diplomazia sanitaria, sono arrivati medici, apparecchiature ospedaliere e vaccini cinesi, grazie alla mediazione con le autorità di Pechino. L’Italia, solo parzialmente giustificata dalla gravità del quadro epidemiologico nazionale, si è completamente dimenticata di tale opportunità.

Oltre al tedesco e al turco, nei Balcani si comincia a parlare anche cinese. Il gigante asiatico guarda alla regione balcanica come porta d’accesso ideale per i mercati dell’Europa centrale e orientale. E lo fa nel quadro della Belt and Road Initiative, il progetto infrastrutturale cinese per connettere Asia, Africa ed Europa nel quadro di una globalizzazione in salsa orientale.

Il caso del Montenegro è emblematico. Nel 2014, Podgorica e Pechino negoziarono un accordo per costruire un’autostrada tra il porto di Bar e Boljare, al confine con la Serbia. L’infrastruttura avrà una lunghezza di 165 Km, ma solo 40 Km sono stati parzialmente realizzati dalla China Road and Bridge Corporation. Ciononostante, il Montenegro ha accumulato un debito di un miliardo di dollari, che rischiava di obbligarlo a cedere la proprietà di terreni ai cinesi. La clausola è contenuta nei contratti ed è il mezzo che Pechino usa per acquisire il controllo di terre coltivabili e infrastrutture strategiche nei Paesi africani o asiatici, caduti nella trappola del debito cinese. La scorsa estate questo scenario è stato evitato grazie all’intervento di alcuni istituti di credito americani e francesi. Washington non poteva permettere che un membro della NATO soffocasse tra le spire cinesi.

Anche in tale occasione, l’Italia ha sprecato l’opportunità per giocare un ruolo al di là dell’Adriatico, ma l’idea non ha nemmeno lontanamente sfiorato la classe dirigente. Intanto, il nostro estero vicino è in mani altrui, che potrebbero allungarsi verso il nostro Paese, senza che noi possiamo fermarle. Il quadro è dunque molto cupo per Roma, che paga anche nei Balcani decenni di politica estera inconsistente o addirittura contraria ai nostri interessi. Il problema è sempre lo stesso: l’incapacità della classe dirigente e della società di definire gli obiettivi dell’Italia e calibrare in maniera coerente l’azione internazionale. Ma non è troppo tardi. Dai porti di Spalato e Dubrovnik ai monti di Transilvania, c’è ancora molta voglia di collaborazione politica ed economica con Roma.

Non possiamo rinunciare a secoli di presenza sull’altra sponda dell’Adriatico. E una buona occasione è di appoggiare con chiarezza e decisione l’ingresso nell’Unione europea dei Paesi candidati dei Balcani occidentali. L’altro ieri, nel summit dei leader europei e degli Stati che bussano alla porta di Bruxelles, è stata ribadita la vecchia promessa di ingresso futuro. Ma non ci sono scadenze precise né tabelle di marcia. Roma potrebbe trasformarsi nel principale sponsor di tali aspirazioni, mostrando di avere interessi da tutelare e di non voler abbandonare quegli Stati nelle mani di altri. Perché l’Italia è mediterranea ma anche balcanica.

Foto: lonelyplanetitalia.it