In Libano manca tutto. Medicinali, carburante e pezzi di ricambio sono introvabili. Anche il cibo e l’acqua potabile scarseggiano. Metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e la situazione sembra destinata a peggiorare. Il Paese è in preda a una classe dirigente rapace e corrotta, che alimenta le fratture settarie e confessionali per conservare privilegi e clientele. La società civile, che nel 2019 si era mobilitata per chiedere riforme profonde, accantonando i rancori e le divisioni del passato, appare stanca e rassegnata. La speranza di quei mesi è ormai un lontano ricordo e la pandemia ha aggravato la situazione. Come se non bastasse, l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, il 4 agosto dell’anno scorso, ha devastato il porto di Beirut, distruggendo un’infrastruttura strategica. Dalle indagini sull’accaduto, ostacolate in tutti i modi, emergono sospetti di responsabilità politiche e connivenze inconfessabili, destinati a complicare il quadro.

Nei giorni scorsi, due fatti hanno scosso il già martoriato Libano. Il primo è avvenuto il 9 ottobre, quando tutto il Paese è rimasto senza elettricità per più di 24 ore. La causa del problema era la mancanza di carburante per alimentare le centrali di Zahrani e Deir Ammar. A questo si è aggiunta la sospensione delle forniture da parte dei turchi di Karpowership, in ragione di un debito non saldato di 80 milioni di euro. Il buio ha avvolto città e campagne. E i generatori privati, che i cittadini utilizzano per alleviare i disagi dei continui blackout, sono restati in silenzio perché non c’è la benzina per alimentarli.

Il Libano non può più acquistare petrolio e prodotti raffinati, così come la maggior parte dei beni di importazione, poiché non ha più valuta estera per pagarli. La Banca centrale ha bruciato quasi tutte le riserve per impedire il crollo del valore della lira libanese. Cosa che, tra l’altro, non è riuscita a evitare. In pochi mesi, la divisa nazionale si è deprezzata del 90% rispetto al dollaro e l’inflazione galoppante ha annientato il potere d’acquisto dei cittadini. I pochi beni disponibili hanno prezzi altissimi, con la carne e la benzina diventati prodotti di lusso. Le stazioni di servizio sono chiuse e le automobili in circolazione diventano sempre più rare.

A settembre, Hezbollah, il “Partito di Dio” vassallo dell’Iran, ha annunciato in maniera trionfalistica che Teheran avrebbe inviato carburante per alleviare le sofferenze dei libanesi. Il carico è arrivato, ma si è trattato più di uno show propagandistico che di una reale soluzione alla penuria di prodotti energetici. L’iniziativa ha reso evidente ancora di più che Hezbollah è uno Stato all’interno dello Stato libanese, principale responsabile della crisi, che il Paese dei cedri vive da anni. Tale mossa ha raffreddato ulteriormente i donatori internazionali. Questi, sotto la guida della Francia, sono disposti a finanziare la ricostruzione del porto di Beirut e a immettere risorse nella disastrata economia libanese. A patto però che siano adottate riforme incisive, capaci di sbloccare il Paese.

Anche gli Stati Uniti, come era d’altronde prevedibile, non hanno gradito la mossa di Hezbollah. Si tratta infatti di una palese violazione delle sanzioni imposte da Washington al regime degli ayatollah. Gli americani sono corsi ai ripari, favorendo un accordo con l’Egitto per rifornire di gas il Libano attraverso la Giordania. Il problema è che il gasdotto passa anche in territorio siriano e gli americani sono stati costretti a coinvolgere anche Bashar al Assad nel piano. Ma in questo modo, il dittatore si accredita come interlocutore necessario nella regione. Nonostante l’impegno degli occidentali a tagliare i legami con il regime siriano. Gli Stati Uniti si sono quindi limitati a reagire alle iniziative di Hezbollah, mostrando di non avere idee chiare su come gestire la crisi del Libano e le sue conseguenze sul resto del Levante.

Il secondo fatto che scuote il Paese dei cedri ha avuto luogo giovedì scorso. Da tempo, Hezbollah chiede la rimozione di Tariq Bitar, il magistrato che indaga sull’esplosione al porto di Beirut. L’organizzazione politico-militare guidata da Hasan Nasrallah ritiene che il giudice sia corrotto e parziale nelle indagini. Tali accuse sono diventate più aggressive, dopo che la Cassazione ha respinto diverse richieste, formulate da membri del palamento e del governo, di assegnare ad altri il caso. L’iscrizione nel registro degli indagati di Ali Hasan Khalil, ministro delle Finanze tra il 2014 e il 2020, del partito Amal, alleato di Hezbollah, ha esacerbato gli animi. E dinanzi al rifiuto della Cassazione, Hezbollah ha giocato la carta della piazza, convocando una manifestazione per il 14 ottobre.

Il luogo prescelto per il raduno non era lontano dalla rotonda di Tayyoune, nel quartiere cristiano di Ain Remmane. Questo è convenzionalmente indicato come il posto dove scoccò la scintilla del conflitto, che insanguinò il Libano tra il 1975 e il 1990. Gli organizzatori avevano sottolineato il carattere pacifico dell’iniziativa, ma numerosi partecipanti erano armati di tutto punto. A un certo momento, un cechino ha cominciato a sparare sulla folla e il caos si è impadronito della piazza. Il bilancio finale è di sette morti e decine di feriti. Subito è tornato lo spettro della guerra civile, ma il messaggio è un altro.

Hezbollah e i suoi alleati hanno chiarito che non vogliono indagini chiare e indipendenti sull’esplosione di quel nitrato d’ammonio mal conservato al porto di Beirut e destinato chissà dove. È evidente che emergerebbero responsabilità molto gravi di esponenti del Patito di Dio e di persone di più o meno tutti i gruppi politici. Questi ormai controllano ogni aspetto della vita del Paese e non sono disposti a rinunciare a clientele e traffici di ogni tipo, sedimentati nel tempo. La classe al potere, sempre uguale da decenni e con le stesse famiglie a occupare posizioni di potere, non ha alcun interesse a cambiare lo status quo.

Non è un caso che, a inizio ottobre, i nomi di molti politici e dirigenti libanesi siano comparsi nei Pandora Papers. Divulgati dal consorzio di giornalismo investigativo Icij, i documenti svelano casi di occultamento di patrimoni miliardari in società offshore, con sede in paradisi fiscali, per sfuggire ai sistemi di tassazione locali. Il Paese dei cedri occupa il primo posto della classifica, se si considera la nazionalità delle persone coinvolte. Un primato che ai partiti di Beirut non dispiace per niente. Intanto, le disuguaglianze si approfondiscono, con il 10% della popolazione adulta che detiene il 70% delle ricchezze personali.

Quanto emerso con chiarezza negli ultimi giorni, semmai ci fosse bisogno di ulteriori conferme, è che il Libano resta ostaggio di una minoranza di imbroglioni. Questi sono stati capaci di dare vita a un sistema consociativo esasperato, facendo dello Stato una banca, dalla quale prelevare senza regole né controlli. Hezbollah è solo l’esponente più potente dei gruppi etnico-settari, a capo di una mafia legalizzata con pochi eguali al mondo. Ma gli altri partiti -cristiani, sunniti, sciiti o drusi- non sono certo meno colpevoli. Non a caso, l’esercito nazionale, unica istituzione riuscita a superare la barriera delle appartenenze confessionali, è mantenuto costantemente ai margini, a vantaggio delle milizie.

Lo spettro della guerra civile è evocato solo affinché la paura di un ritorno al passato prevalga sulla rabbia crescente di chi va in ospedale e non trova le medicine, va a fare rifornimento e non trova benzina, va dal fornaio e non trova il pane. Chi può cerca di fuggire all’estero, soprattutto i giovani. Di questo passo, rimarranno solo i ladri e i corrotti nel Paese dei cedri a dominare, con risorse decrescenti, su clientele sempre più disilluse e meno disposte a inchinarsi dinanzi al potente di turno. Il Libano ha vissuto già la notte della guerra civile. Questa difficilmente tornerà, ma una catastrofe politica, economica e sociale è apparsa lo stesso all’orizzonte dell’azzurro mare di Beirut.

Foto: AP/La Presse