Esattamente un mese fa, si sarebbe dovuto svolgere il primo turno delle elezioni presidenziali per designare il capo dello Stato libico. L’appuntamento con le urne era stato pensato come primo passo concreto per l’avvio del processo di stabilizzazione e democratizzazione. La speranza era di voltare pagina, dopo un decennio di violenze di ogni tipo, seguite al rovesciamento del regime quarantennale di Muhammar Gheddafi. Ma le cose sono andate diversamente. Le cancellerie occidentali e la pesante macchina burocratica onusiana, fino a pochi giorni prima della consultazione, avevano ostentato fiducia. Ma era evidente che la votazione non avrebbe avuto luogo, rendendo sempre più imbarazzanti le dichiarazioni di ministri e delegati. Il rinvio a una data al momento indefinita è frutto dei profondi cambiamenti nei rapporti tra le potenze interessate all’antica colonia italiana. Gli attori locali sono solo pedine nelle mani dei loro rispettivi sponsor stranieri.

Il Comitato militare congiunto 5 + 5, formato dai rappresentanti del Libyan National Army, guidato dal signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, e dai delegati del governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, aveva raggiunto un accordo di cessate il fuoco a Ginevra a ottobre del 2020. Agli inizi di febbraio dell’anno successivo, furono designate nuove autorità esecutive temporanee, con il mandato di condurre il Paese alle elezioni. Tra queste, anche il governo presieduto da Abdul Hamid Dabaiba, subentrando all’esecutivo ormai logoro di Fayez al Sarraj, avrebbe dovuto favorire il processo democratico.

La tregua armata ha subito solo violazioni circoscritte, tanto da consentire alle parti in conflitto di acquisire un minimo di fiducia reciproca. Contatti sono in corso per cercare di unificare alcune delle istituzioni economiche e militari, che ancora dividono la Tripolitania dalla Cirenaica. Ma passi in avanti concreti avverranno solo quando sarà più chiaro dove stia portando l’evoluzione dei rapporti tra gli Stati interessati alla Libia. Questi si erano posizionati a difesa dei loro rispettivi interessi nel Paese nordafricano, secondo schieramenti che sembravano stabili. Essi riflettevano le fratture e gli obiettivi geopolitici divergenti delle potenze mediorientali, impegnate ad affermare o a rafforzare la propria posizione nello scacchiere regionale. Il tutto mentre gli Stati Uniti continuano a guardare da lontano. Washington è pronta a intervenire solo se i russi e, con minore probabilità, i cinesi dovessero acquisire un’influenza tale da mettere a rischio la sicurezza delle rotte marittime nel Mediterraneo centrale.

La potenza più determinata a proteggere le posizioni acquisite e i suoi interessi libici è la Turchia. Con i fondi del Qatar, Ankara appoggia le fazioni tripolitane. Ed è stata determinante nella resistenza di al Sarraj al colpo di mano militare, tentato da Haftar nel 2019. In quei mesi, Tripoli sembrava sul punto di cadere. Ma l’impegno dei turchi, affiancati da mercenari siriani, permise di ribaltare l’esito dell’offensiva. Nonostante l’appoggio di emiratini ed egiziani e, in maniera discreta, di francesi e sauditi, Haftar perse l’occasione di riunire la Libia sotto il suo controllo. L’incertezza sul futuro del Paese è rimasta, ma Ankara non ha certo aspettato tempi migliori per raccogliere i frutti dei suoi investimenti geopolitici. Già a novembre del 2019, i due Paesi firmarono un accordo sulla delimitazione delle rispettive frontiere marittime.

Il ritorno dei turchi sulle coste nordafricane, centodieci anni dopo la sconfitta nella guerra contro l’Italia giolittiana, è solo un tassello di un mosaico più ampio. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan è impegnato rafforzare la proiezione internazionale del Paese. Il suo progetto punta a rendere Ankara attore primario negli equilibri geopolitici tra Mediterraneo, Medio Oriente e Asia Centrale. Per raggiungere tale obiettivo, la Turchia non può prescindere dalla dimensione marittima, intesa come arena dove sviluppare e difendere i propri interessi nazionali. È la dottrina della “patria blu”, mavi vatan in turco, formulata nel 2006 dall’ammiraglio Cem Gürdeniz. Nata in riferimento alle aree di giurisdizione marittima nell’Egeo e nel Mar Nero, essa si è trasformata nel pilastro principale della politica estera di Ankara.

Erdoğan concepisce dunque la Tripolitania più come approdo ospitale per le navi che come nuovo vassallo in salsa neo-ottomana. Dopo Cipro, la Libia nord-occidentale è la prima conquista geopolitica di una Turchia che vuole liberarsi dagli spazi ristretti dell’Anatolia. Il Paese, che aveva dominato su tante regioni europee, mediterranee e mediorientali, ora sogna di spezzare definitivamente i vincoli imposti dalla sconfitta ottomana nella prima guerra mondiale. E per farlo ha bisogno della libertà sui mari. Ecco perché la Libia è così importante per Ankara e rientra nel disegno di garantirsi l’accesso agli oceani, tramite Gibilterra e Suez. Si tratta però solo di un progresso circoscritto, anche se importante. L’ingresso nell’Oceano Indiano, tramite il Mar Rosso, deve tenere conto di altri attori, in primis degli Emirati Arabi Uniti. Questi hanno sostenuto Haftar in Libia e si sono opposti alle ambizioni turche, almeno fino all’autunno scorso.

Abu Dhabi avversa i movimenti ispirati all’Islam politico, che costituiscono la galassia della Fratellanza musulmana. Tali organizzazioni, attive in tutto il mondo arabo e con ramificazioni anche in Occidente, sono percepite come un pericolo dalle petromonarchie del Golfo. Le dinastie della Penisola araba temono che la diffusione delle loro idee possa annullare il patto sociale, che legittima il potere delle Case regnanti. Questo si fonda sul disinteresse dei cittadini per la politica, attenuato da alcune forme di partecipazione alla vita pubblica, in cambio di benessere e stabilità. L’unica eccezione è rappresentata dal Qatar, che utilizza l’Islam politico per perseguire i suoi obiettivi geopolitici, non sempre compatibili con quelli dei vicini. Tale gioco di incastri è alla base dell’alleanza tra Doha e Ankara, che si atteggia a protettrice e guida della Fratellanza musulmana, e dei dissapori con le altre monarchie del Golfo.

Ecco perché turchi ed emiratini si sono trovati su fronti completamente diversi nella partita libica, dove si inserisce anche l’Egitto. Il regime del presidente Abdel Fattah al Sisi è tributario politico di Abu Dhabi e Riad, in ragione degli aiuti economici indispensabili alla sua sopravvivenza. Ma è anche preoccupato di impedire che l’ascesa di movimenti politici di ispirazione islamica o islamista in Libia possa avere eco al Cairo. Al Sisi non vuole la riorganizzazione delle forze, che nel 2012 avevano portato all’elezione di Muhammad Morsi. Esponente della Fratellanza musulmana, il presidente restò in carica un anno e fu deposto in un colpo di Stato, guidato proprio dall’attuale rais.

La pretesa di Erdoğan di essere riferimento dei gruppi politici egiziani ora costretti alla clandestinità è alla base dei dissapori tra Ankara e Il Cairo. I due Paesi hanno relazioni molto tese da circa un decennio. Anche se negli ultimi mesi non sono mancati i tentativi di ricomporre almeno le fratture più evidenti. Gli incontri ministeriali di vario livello si sono succeduti nel corso del 2021, tra speranze di dialogo e improvvise battute d’arresto. Le cose però ora potrebbero cambiare, con l’apertura di inaspettati spazi di dialogo, in seguito al riavvicinamento tra la Turchia e gli Emirati.

A fine novembre, Muhammad bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi e guida de facto del Paese, ha incontrato Erdoğan ad Ankara. Si tratta della prima visita ufficiale di alto livello da parte di un politico emiratino in Turchia dal 2014. L’obiettivo del summit era di trovare un’intesa per superare anni di attriti, giudicati nocivi da entrambe le parti per i rispettivi interessi nazionali. Erdoğan ha accolto con piacere l’impegno di bin Zayed a investire 10 miliardi di dollari nell’economia turca, provata dalla crisi della lira e dalle conseguenze della pandemia. Il presidente, che basa larga parte del suo consenso sui progressi economici degli anni passati, aspetta le elezioni del 2023 con crescente preoccupazione.

Ankara spera nei buoni uffici di Abu Dhabi per riavvicinarsi all’Egitto. I turchi sognano di poter concludere un accordo sulla delimitazione delle frontiere marittime, simile a quello firmato con Tripoli. La posta in gioco è molto rilevante perché un’intesa con Il Cairo aprirebbe le porte di Suez e del Mar Rosso alle ambizioni regionali di Erdoğan. In quest’area dovrebbe comunque fare i conti con gli interessi contrastanti di emiratini e sauditi. Questi sono ben poco disposti ad assecondare le mire geopolitiche turche tra Corno d’Africa e Mare Arabico. Ecco perché il riavvicinamento tra Ankara e Abu Dhabi non può che essere tattico. Ma le conseguenze sul panorama politico libico non sono state irrilevanti.

La ridefinizione dei blocchi di alleanze in Medio Oriente ha portato incertezze nell’antica colonia italiana. Possibili spartizioni di potere e influenze, che sembravano ormai definite, si sono rivelate improvvisamente obsolete. Ognuna delle fazioni in lotta per la difesa dei propri interessi rischia di vedere gli alleati esteri di un tempo trasformarsi improvvisamente in nemici e viceversa. Con la conseguenza che tutti hanno deciso di prendere tempo, aspettando di capire meglio quali assetti nascano dalla fluidità della situazione attuale.

Un dato però non cambia: il futuro della Libia non dipende dai quasi 3 milioni di cittadini, che il 24 dicembre avrebbero dovuto scegliere il presidente. Ma da quanto decideranno le potenze regionali, determinate a difendere i loro interessi. Unici assenti non giustificati, ancora una volta, sono gli europei, italiani compresi. Se i russi sono concentrati sulla destabilizzazione delle vecchie Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e sulla dialettica muscolare con gli Stati Uniti intorno alla carcassa dell’Ucraina, dalle nostre parti continuano a mancare piani precisi di difesa degli interessi nazionali in Libia. Non si va oltre l’imbarazzante riferimento alle stanche liturgie delle Nazioni Unite, che suscitano entusiasmo solo in alti funzionari strapagati, ma incapaci riconoscere chi comanda veramente in Libia. E non siamo noi né i libici.

Foto: tg24.sky.it

Fonti e approfondimenti

S. Cecinini, Libia: la competizione di Egitto e Turchia in Tripolitania e Cirenaica, Sicurezza Internazionale, 14 gennaio 2022;

F. Wehrey, E. Badi, Flames on the Horizon? Libya may be heading towards new rounds of conflict in the aftermath of its recently aborted elections, Carnegie Middle East Center, 7 gennaio 2022;

ISPI, Libia, verso il non voto, 16 dicembre 2021;

L. Pretto, La Libia alle urne in un clima di profonda incertezza, Ce.S.I., 7 dicembre 2021;

E. La Forgia, La Libia verso le urne: tante incertezze e il rischio di rinvio, Lo Spiegone, 14 dicembre, 2021;

P. Laurenza, Libia: Haftar escluso dalle presidenziali, elezioni sempre più in bilico, Sicurezza Internazionale, 1 dicembre 2021;

T. Qiblawi, What a Croun Prince’s trip to Turkey tells us about the post-American Middle East, CNN, 24 novembre 2021;

D. Santoro, Perché la Turchia deve ritornare impero entro il 2053, Limes n. 10/2021;

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A. Bufis, La Turchia e la dottrina della Patria Blu quale utile strumento per spiegare le sue politiche assertive nell’area mediterranea con la riscoperta del potere del mare, Geopolitica.info, 14 febbraio 2021.