Tra le cose difficili da imparare, quando a scuola la maestra assegnava da studiare le prime pagine di storia, molti ricordano la Mesopotamia. Ci hanno insegnato a ripetere, quasi a mo’ di poesia, che questo termine, totalmente estraneo al vocabolario di qualsiasi alunno di otto anni, indica la terra tra due fiumi – il Tigri e l’Eufrate – culla di antiche e gloriose civiltà. Generazioni di studenti in erba hanno imparato i primi paroloni, da riportare a casa con l’orgoglio di chi sente di studiare finalmente cose difficili. Mesopotamia, appunto. Ma anche Mezzaluna fertile e nomi di popoli scomparsi da millenni – sumeri, ittiti, assiri, babilonesi, persiani – che riportano alla memoria racconti di terre, un tempo ricche e potenti. Chi dovesse visitare oggi quell’area rimarrebbe deluso. Tra le coste siriane e il confine iraniano e tra l’altopiano anatolico e lo Shatt al Arab il deserto avanza e la Mezzaluna non è più fertile.

Sono quattro i Paesi della regione afflitti da una siccità, che ormai dura da tre anni e minaccia di rendere inabitabile una buona parte del Medio Oriente. Siria, Turchia, Iran e Iraq sono alle prese con gli effetti più evidenti dei cambiamenti climatici e devono condividere risorse idriche via via più esigue. Non sorprende quindi che siano sempre più frequenti gli attriti per accaparrarsi la poca acqua disponibile. Ankara e Teheran hanno maggiore capacità di imporre i propri interessi in quanto potenze regionali di primo livello. Inoltre, la vastità e la complessità dei territori turco e iraniano fanno sì che solo alcune aree siano sottoposte a stress idrico. Questo è assente o assume carattere stagionale dove la piovosità è sempre stata maggiore, come in corrispondenza delle grandi catene montuose o lungo le coste del Mar Nero.

Per la loro fragilità interna, Siria e Iraq faticano a difendere i propri interessi e spesso vedono le loro posizioni soccombere dinanzi all’assertività dei vicini. In particolare, Baghdad è vittima dei progetti infrastrutturali, soprattutto turchi, e dei prelievi d’acqua degli iraniani dagli affluenti del Tigri. Le temperature estive, vicine ai 50° C per periodi sempre più lunghi, e l’evaporazione elevata aggravano la situazione. Molte province irachene non sono in grado di garantire ai cittadini l’acqua potabile per più di una o due volte a settimana. Vaste aree, un tempo dedite all’agricoltura, sono ora distese polverose e bruciate dal sole. Nemmeno le centrali elettriche possono funzionare, a causa dell’impossibilità di attivare i sistemi di raffreddamento ad acqua. E le interruzioni di corrente sono lunghe e frequenti. Un paradosso per un Paese che galleggia sul petrolio e una delle cause principali delle periodiche ondate di violente proteste popolari.

La scarsità di acqua, aggravata dalle carenze infrastrutturali e dall’inquinamento, ha pesanti conseguenze sull’agricoltura e sull’ambiente. Nell’anno in corso, il raccolto di riso ambrato, che deriva il suo nome dall’aroma simile a quello della resina, sarà soltanto simbolico. La coltivazione di questo cereale, che è alla base della dieta dei 41 milioni di iracheni, si concentra a sud di Baghdad, intorno alle città di Najaf e Diwaniya. La produzione raggiungeva 300mila tonnellate un decennio fa, richiedendo tra i 10 e i 12 miliardi di metri cubi d’acqua, durante i cinque mesi del ciclo vitale delle piante. La superficie coltivata era di 35mila ettari. A maggio, le autorità hanno consentito lo sfruttamento soltanto di 1.000 ettari, con l’assegnazione di quote minuscole ai produttori.

L’agricoltura occupa ancora un quinto della forza lavoro e contribuisce alla ricchezza nazionale per un ammontare secondo solo ai proventi derivanti dal petrolio. Nel 2021, la produzione si è ridotta del 17,5 % rispetto all’anno precedente. Il raccolto di grano che, nel 2019 e nel 2020, si era assestato sui 5 milioni di tonnellate, quest’anno sarà quasi dimezzato, attestandosi tra i 2,5 e i 3 milioni di tonnellate. Una quantità insufficiente a coprire il fabbisogno nazionale. L’Iraq dovrà quindi aumentare le importazioni cerealicole. Non si tratta certo di una buona notizia per un Paese perennemente sull’orlo della bancarotta, in un momento di aumento vertiginoso dei prezzi dei prodotti alimentari, come conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina.

La riduzione della piovosità è tra le cause principali della contrazione delle attività agricole nell’antica Mezzaluna fertile. Dopo un inverno e una primavera avari di precipitazioni, la portata dei fiumi si è ridotta di parecchio. Ad esempio, la provincia di Diwaniya è irrigata dall’Eufrate, che ad agosto trasportava 90 metri cubi d’acqua al secondo, a fronte dei 180 della media del periodo. Tale situazione è il risultato dei cambiamenti climatici, che nella regione sono particolarmente evidenti. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale pubblicato a marzo di quest’anno, in Medio Oriente e Asia Centrale le temperature medie sono aumentate di 1,5° C dal 1990, rispetto a una crescita a livello globale di 0,7° C. Disastri naturali, come tempeste di sabbia e inondazioni lampo causate da precipitazioni intense e concentrate, sono più frequenti, coinvolgendo 7 milioni di persone dall’inizio del secolo. A questo si aggiungo le conseguenze di scelte scellerate.

La foce del Tigri e dell’Eufrate, che si congiungono a 150 Km dal Golfo dando vita allo Shatt al Arab, si presenta come una vasto ecosistema umido. Gli autori biblici avevano identificato il giardino dell’Eden proprio tra i palmeti di questa zona. Nel 2016, L’UNESCO ha inserito le paludi dell’Iraq meridionale tra i siti patrimonio dell’umanità. Il riconoscimento premiava la straordinaria biodiversità del territorio e la sua antica storia, arrivando al termine di un lungo processo di ricostituzione degli acquitrini. Infatti, nel 1991, Saddam Hussein aveva ordinato il prosciugamento di vaste aree inondate come punizione alle comunità locali, che avevano dato rifugio e protezione a forze ostili al regime. La siccità attuale ha riportato le lancette dell’orologio indietro di trent’anni. Il letto di molti corsi d’acqua è tornato polveroso e gli acquitrini si stanno trasformando rapidamente in pozze d’acqua fangosa e maleodorante.

L’inaridimento delle paludi del sud iracheno mette in difficoltà migliaia di famiglie dedite all’agricoltura e all’allevamento dei bufali. Sono già in molti quelli che hanno perso la speranza, abbandonando una delle regioni più povere del Paese per cercare fortuna nelle grandi città. Si alimenta così la crescita degli sconfinati sobborghi dei centri urbani, privi di ogni tipo di servizi, dove il richiamo dell’estremismo trova terreno fertile tra le masse di disperati senza futuro.

La situazione è particolarmente grave nelle zone umide di Huwaizah, a ridosso della frontiera iraniana. Queste paludi sono alimentate da due affluenti del Tigri, impoveriti dai prelievi d’acqua e dalla costruzione di sbarramenti ordinati da Teheran. Il regime degli ayatollah è infatti impegnato a favorire lo sviluppo dell’agricoltura e la produzione di energia idroelettrica nella provincia del Khuzestan. Questa è abitata in prevalenza da arabi sciiti, percepiti dai gruppi etnici di ceppo persiano come una sorta di corpo estraneo da controllare. La paura costante di rivolte spinge Teheran a non trascurare troppo il livello di benessere di questa regione agli estremi confini sud-occidentali della Repubblica islamica. Ma la realizzazione di dighe e invasi per la raccolta dell’acqua finisce per sottrarre risorse al ben più debole vicino. Una cosa simile avviene nella zona a cavallo tra il Kurdistan iracheno e la Turchia, impegnata nella realizzazione del Southeastern Anatolia Project (SAP).

Questo complesso sistema di opere infrastrutturali è stato concepito a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso per favorire lo sviluppo dell’Anatolia sud-orientale. L’area è ancora oggi molto arretrata sul piano economico rispetto ad altre province. Ma Suleiman Demirel, primo ministro e poi presidente della Turchia, vi intravide la possibilità di sfruttare le acque del Tigri e dell’Eufrate su larga scala. I lavori di costruzione durano da decenni. L’obiettivo è di accrescere la produzione agricola attraverso 2 milioni di ettari aggiuntivi di terre irrigue. A questo si aggiunge il miglioramento della capacità di generare energia idroelettrica, così da trasformare Ankara in esportatore netto di corrente e derrate alimentari. Il progetto prevede la creazione di 200mila posti di lavoro durante la fase di realizzazione e dovrebbe essere completato entro la fine del prossimo anno.

Non è chiaro se il SAP sarà ultimato in tempo per il centesimo anniversario della Repubblica turca. Ma il presidente Erdoğan è intenzionato a portare a termine il lavoro. Anche perché l’autosufficienza alimentare e un miglioramento importante sul piano della sicurezza energetica sono funzionali alle ambizioni imperiali della Turchia contemporanea. Tutti i soggetti geopolitici con tali aspirazioni cercano l’indipendenza in questi due ambiti per non essere esposti alle conseguenze della altrui volontà. E Ankara sembra essere intenzionata a rispettare questa regola fondamentale delle relazioni internazionali. Poco importa che le infrastrutture non abbiano una ricaduta positiva rilevante sulla vita delle popolazioni curde, prevalenti nell’Anatolia profonda. Il SAP era stato pensato anche per risolvere la questione, ma oggi assume per Erdoğan una funzione strategica da salvaguardare, anche a costo di perdere per sempre siti di grande valore storico e archeologico, come Hasankeyf, e di inasprire le relazioni con gli Stati confinanti.

La costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche in territorio turco non è cosa da poco. Non stupisce quindi che i progetti di Ankara suscitino da tempo preoccupazione in Siria e in Iraq. Le operazioni di riempimento degli invasi, unite alla diminuzione delle precipitazioni, sono alla base della già citata riduzione della portata dei grandi fiumi. Anche Teheran ha manifestato irritazione, accusando la Turchia di essere responsabile delle difficoltà di Damasco e Baghdad, ma anche di un aumento della frequenza delle tempeste di polvere in Iran. Le accuse sono state respinte come prive di qualsiasi fondamento scientifico. Ma evidenziano la speciale importanza geopolitica dell’acqua nella regione, dove da sempre è risorsa scarsa e preziosa.

Assetare la Siria e l’Iraq significa soffiare sul fuoco immenso della rabbia popolare, frutto di decenni di guerra, corruzione, povertà e sottosviluppo. Il patrocinio iraniano sui regimi siriano e iracheno resta solido. Ad Ankara però non dispiacerebbe se, con i suoi piani di sfruttamento dei grandi fiumi mesopotamici che nascono nel suo territorio, suscitasse ulteriore malessere verso Damasco e Baghdad e, di riflesso, verso Teheran. Turchia e Iran sono in competizione per ritagliarsi spazi di egemonia in Medio Oriente e l’acqua rappresenta un’arma di questa sfida, che non esclude colpi bassi. Anche a costo di rendere la Mezzaluna fertile soltanto un ricordo lontano dei tempi della scuola.

Foto: travelandleisureindia.in

Fonti e approfondimenti

H. Indhar, Boiling heatand no water: taps run dry in southern Iraq, Al Monitor 24 agosto 2022;

T. Gamal-Gabriel, Iraq’s Garden of Eden now like a desert, Al Monitor, 14 agosto 2022;

G. Decamme, Iraqi Kurd farmers battle drought as Lake Dukan retreats, Al Monitor, 26 luglio 2022;

E. Rossi, Il Mediterraneo assetato, Med-Or Leonardo Foundation, 1 luglio 2022.

N. Khorrami, Amid dust storms and drought, Turkey and Iran are at odds over transboundary water management, Middle East Institute, 13 giugno 2022;

S. Faraj, Iraq’s prized rice crop threatened by drought, Al Monitor, 15 maggio 2022;

H. Indhar, Between searing drought and Ukraine war, Iraq watchful over wheat, Al Monitor, 8 maggio 2022;

M. Ottaviani, Le guerre per l’acqua attorno alla Mesopotamia, Aspenia online, 14 ottobre 2018;

I. Tsakalidou, The Great Anatolia Project: Is water management a panacea or crisis multiplier for Turkey’s Kurds?, New Security Beat, 5 agosto 2013.