La notizia ha fatto sobbalzare gli analisti internazionali. Perché l’annuncio che Arabia Saudita e Iran riavviano rapporti diplomatici dopo sette anni di aperta rivalità non passa inosservato. Se si aggiunge che Riad e Teheran sono arrivate a un’intesa grazie alla mediazione cinese, allora la portata dell’evento va oltre il Medio Oriente, incidendo sugli equilibri geopolitici mondiali. Per Pechino si tratta di un indiscutibile successo, conseguito in un’area in cui il rivale americano ha fatto il bello e il cattivo tempo per decenni. Segno che il Dragone è sufficientemente sicuro di sé per sfidare lo zio Sam lontano dal suo giardino di casa, ponendosi alla guida di un “sud globale”, non più disposto a riconoscere nell’Occidente un modello politico e culturale. Ma la conclusione che il tempo dell’influenza americana sul Golfo sia passato peccherebbe di superficialità. Così come la convinzione che stia cominciando una stagione concordia tra sauditi e iraniani.

Era l’inizio del 2016 quando l’influente leader religioso sciita Nimr Baqir al Nimr fu giustiziato a Riad con l’accusa di spionaggio a favore di governi stranieri e di azioni armate contro le forze dell’ordine. La condanna a morte suscitò violente proteste a Teheran, culminate con l’assalto all’ambasciata saudita. Da allora le relazioni tra i due Paesi hanno attraversato una fase di gelo diplomatico, con momenti di tensione ai limiti dello scontro militare. L’esecuzione dello sceicco al Nimr era in realtà solo l’episodio che rendeva palese la competizione tra la Repubblica islamica e il Regno dei Saud. Le questioni religiose sono soltanto l’orpello ideologico di una rivalità squisitamente geopolitica tra due attori che aspirano all’egemonia nello strategico scacchiere mediorientale.

Riad aveva beneficiato a lungo del processo di consolidamento del potere degli ayatollah, più attenti alle questioni interne che alla proiezione internazionale dell’Iran, nonché dell’ombrello protettivo americano, non preoccupandosi troppo del vicino persiano. Le cose sono cambiate quando Teheran ha approfittato dell’ondata di rivolte che, a partire dalla fine del 2010, ha scosso le fondamenta di tanti regimi arabi. L’onda delle proteste popolari ha travolto classi dirigenti e rendite di posizione apparentemente immutabili, facendo precipitare Paesi come la Siria e lo Yemen nel baratro della guerra civile. Proprio in tali contesti, Teheran ha cercato di incunearsi, sostenendo di volta in volta soggetti considerati utili al rafforzamento della sua influenza regionale. Da Hezbollah in Libano ad Hamas in Palestina, dalla galassia delle formazioni politiche sciite in Iraq al regime di Bashar al Assad fino ai ribelli houthi nel nord-ovest yemenita, l’Iran tessuto una rete sempre più fitta di clienti.

Tale protagonismo ha messo in allarme le petromonarchie saudita ed emiratina. La loro preoccupazione è aumentata dopo l’accordo del 2015 che, in cambio di un sostanziale congelamento del programma nucleare degli ayatollah, prevedeva una parziale rimozione delle sanzioni imposte alla Repubblica islamica dagli Stati Uniti e dai loro alleati. L’intesa ha prodotto dei cambiamenti molto profondi nella maniera di considerare gli americani, percepiti da Riad come alleati divenuti improvvisamente infidi. A questo si aggiunge l’autosufficienza energetica che Washington ha acquisito negli ultimi quindici anni grazie alle nuove tecniche di estrazione degli idrocarburi e allo sfruttamento delle sabbie bituminose. Il petrolio dei deserti della penisola araba non ha più dunque la rilevanza strategica di un tempo. Anche se la geografia continua ad assegnare a tutta l’area un’importanza fondamentale per le rotte di collegamento tra Atlantico e Indiano via Mediterraneo e Mar Rosso.

Il ritiro dall’Afghanistan, completato ad agosto 2021, ha poi accentuato la percezione che gli americani abbiano perso interesse per il Medio Oriente. Né ha giovato a Washington il tentativo di Joe Biden, all’inizio suo mandato, di trasformare l’Arabia Saudita in un paria della comunità internazionale. In forza di una pericolosa commistione tra principi ideologici e politica estera, la Casa Bianca intendeva sanzionare l’antico alleato arabo e, in maniera particolare, il principe ereditario e sovrano de facto Muhammad bin Salman. Il presidente dava così soddisfazione all’anima più a sinistra dei democratici americani, ostili al coinvolgimento di Riad nella guerra civile in Yemen, alla compressione dei diritti civili e politici e alla reticenza a fare chiarezza sulla vicenda del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul. La rotta fu corretta quasi subito, anche grazie all’intervento del segretario di Stato Antony Blinken, diplomatico esperto e cauto.

Lo strappo tra Washington e Riad è stato temporaneo e non ha fatto venire meno il carattere strategico dell’alleanza tra le due capitali. Anche perché l’amministrazione Biden non ha allentato la pressione sul rivale iraniano, arrivata ai massimi livelli con Donald Trump che, considerando troppo generoso l’accordo del 2015, decise il ritiro degli Stati Uniti. Ma una certa sensazione di distrazione degli americani dalle questioni mediorientali resta e continua a crescere. Non solo il ritiro da Kabul ha determinato tale percezione. Il sostanziale disinteresse per le crisi in Siria e in Yemen, la concentrazione sul quadrante indo-pacifico per contenere le ambizioni cinesi, la guerra per procura contro la Russia attraverso l’Ucraina lasciano intravedere un vuoto geopolitico creatosi intorno al Golfo. In realtà, i capisaldi del potere di Washington nell’area non hanno subito alterazioni, dal rapporto privilegiato con Israele alla presenza militare in Iraq, Qatar ed Emirati.

Tra le pieghe del disimpegno americano in Medio Oriente, più presunto che reale, ha cercato di incunearsi la Cina, diventata insieme all’India il primo mercato di destinazione del petrolio sia iraniano che saudita. I buoni rapporti con entrambi i Paesi hanno facilitato la mediazione di Pechino, che ha saputo cogliere la necessità dei contendenti di una tregua per dedicarsi ad altre questioni. Il regime di Teheran sta affrontando da mesi proteste popolari che, seppur contrastate con durezza, sono il segno di una profonda inquietudine sociale, capace di riesplodere violenta in qualsiasi momento. I disegni di creazione di un crescente sciita esteso dal confine pakistano alle coste del Mediterraneo sono poi molto ridimensionati sia a causa dei problemi economici determinati dalle sanzioni sia perché è venuto meno il principale ispiratore della politica egemonica iraniana, il generale Qasem Soleimani, ucciso in un raid americano a inizio 2020.

Da parte sua, l’Arabia Saudita punta a recuperare il ritardo accumulato nei programmi di differenziazione dell’economia. L’obiettivo è ridurre la sua dipendenza dalle entrate del petrolio e promuovere un’immagine aggiornata di sé. Anche per questo, Riad si è sganciata dal pantano yemenita, dopo aver guidato, fin dal 2015, una coalizione di Paesi arabi a sostegno del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Ne è testimonianza il fatto che la tregua tra i ribelli houthi appoggiati dall’Iran e le autorità regge da più di un anno. Inoltre, i sauditi hanno scoperto, non senza un certo sgomento, di essere vulnerabili ad attacchi sul loro stesso territorio. Sono rimasti impressi nell’opinione pubblica i danni alle installazioni petrolifere provocati, fin dal 2019, da droni incendiari degli houthi, secondo piani verosimilmente architettati in Iran. Servono quindi tempo e investimenti per migliorare le capacità nazionali di difesa, meglio se in un contesto regionale più tranquillo.

L’esigenza di Riad e Teheran di allentare la conflittualità si è incontrata con la posizione ideale della Cina per mediare tra le due parti. Cosa impossibile per i rivali americani, dati i loro rapporti con il regime degli ayatollah. Il capolavoro diplomatico, successo anche personale dell’ex ministro degli Esteri Wang Yi, è stato annunciato all’indomani della conferma di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare. Quasi come manifesto di politica internazionale per un Paese che si vuole privo di complessi di inferiorità e pronto a un ruolo di leader a livello globale.

C’è da dire che la détente tra le rive opposte del Golfo aveva cominciato a muovere passi abbastanza decisi già da mesi. Il primo segno di un cambio di rotta, passato quasi inosservato, era arrivato all’inizio dell’anno scorso. A fine gennaio, ad alcuni diplomatici iraniani fu consentito di recarsi a Gedda per partecipare alla riunione preparatoria del vertice dell’Organizzazione per la cooperazione islamica di Islamabad. Grazie alla mediazione del governo iracheno e dell’Oman, i due rivali avevano poi ripreso a parlarsi per definire almeno le linee fondamentali di coesistenza. Questo nulla toglie al successo della Cina. Anche perché è segno che Riad e Teheran riconoscono a Pechino un livello superiore nella gerarchia delle potenze e un ruolo di guida. Cosa che potrebbero fare anche altri Paesi di quella gran parte di mondo lontana dalle suggestioni post-storiche dell’Occidente.

Adesso resta da capire come reagiranno gli Stati Uniti. Oggi non nasce il Medio Oriente cinese, ma si tratta di un innegabile salto di qualità nella proiezione internazionale del Dragone. In queste settimane, Blinken è stato impegnato negli –stan ex sovietici in Asia centrale, nel Sahel e in Etiopia. Qui la stella cinese è in costante ascesa, aiutata da rapporti commerciali sempre più solidi e da investimenti in infrastrutture svincolati, a differenza dei finanziamenti occidentali, da richieste a favore del rispetto dei diritti civili e politici, percepite come interferenze nelle questioni interne dei Paesi beneficiari. I viaggi del segretario di Stato possono essere interpretati come una manifestazione di consapevolezza americana del rischio di perdere terreno a favore dei rivali nel grande gioco mondiale.

Quanto alla dimensione regionale del disgelo arabo-persiano, non mancano certo elementi di fragilità e contraddizioni di fondo. Riad, nonostante le recenti incomprensioni, resta saldamente legata agli Stati Uniti per la sua sicurezza. Ne sono più recente testimonianza le esercitazioni per fronteggiare attacchi di droni, previste nelle prossime settimane, che vedranno per la prima volta coinvolti soltanto militari sauditi e americani. Inoltre, Riad non intende rinunciare alla solida collaborazione con Israele, nemico giurato della Repubblica islamica. Il ritorno di Benjamin Netanyahu, con cui Muhammad bin Salman ha forte sintonia, alla guida del governo dello Stato ebraico potrebbe addirittura favorire il passo decisivo dell’avvio di rapporti ufficiali, nel solco degli Accordi di Abramo, finora ostacolato più da considerazioni di natura interna che da oggettivi impedimenti diplomatici. Sia l’Arabia Saudita che Israele sono poi contrari a un nuovo accordo sul programma nucleare iraniano, ancora in fase di stanca negoziazione.

I prossimi mesi diranno quale sarà l’impatto reale della ripresa del dialogo ufficiale tra due Paesi arrivati più volte sull’orlo dello scontro armato in una regione storicamente turbolenta. Il colpo di scena con la regia Pechino sancisce il ruolo della Cina in Medio Oriente e dovrebbe far riflettere gli americani. Triangolazioni inaspettate e inconciliabili prendono forma tra i deserti della penisola araba, disegnando scenari futuri e tendenze del mondo che verrà.

Foto: agenparl.eu

Fonti e approfondimenti

Questo articolo è frutto della riflessione personale sulla base delle notizie relative all’accordo tra Arabia Saudita e Iran tratte dalle principali agenzie di informazione internazionale