Oggi ricorre il decimo anniversario della guerra civile siriana. Il 15 marzo del 2011, la Primavera araba bussava alle porte dello Stato levantino. Dopo il Nord Africa e la Penisola araba, la richiesta di democrazia e di condizioni di vita migliori scuoteva anche gli equilibri locali. Gli slogan contro il presidente, Bashar al Assad, e il suo regime corrotto cominciavano a percorrere le strade di Damasco e Aleppo. Nessuno immaginava che le proteste popolari e la repressione governativa sarebbero degenerate in un conflitto, dal quale la Siria non è ancora uscita.

Nell’ultimo decennio, nel Paese è successo di tutto. Non c’è sfaccettatura della violenza, della povertà e della negazione dei diritti che sia sconosciuta ai siriani. La guerra civile, il fanatismo del sedicente Stato islamico (Daesh) e di altri gruppi fondamentalisti, il coinvolgimento di potenze straniere hanno ridotto la Siria a brandelli sul piano politico ed economico. Al momento, non sembrano esserci le condizioni e la volontà di far tacere le armi, per lasciare spazio alla ricostruzione materiale e morale del Paese.

Le Nazioni Unite stimano che la guerra abbia provocato un numero di morti vicino al mezzo milione. I civili rappresentano un quarto delle vittime. I rifugiati in altri Paesi, soprattutto in Turchia, Libano e Giordania, sono 6,6 milioni. Più dell’80% dei siriani dispone di un reddito inferiore alla soglia di povertà e un terzo della popolazione si trova in condizioni di insicurezza alimentare. I beni di prima necessità, come pane e carburante, scarseggiano e il loro prezzo è in continuo aumento. Questi dati fotografano bene la condizione attuale della Siria. E ci sono indicatori che suggeriscono un ulteriore peggioramento nei prossimi mesi.

Da alcune settimane, il tasso di cambio della lira siriana nei confronti del dollaro e dell’euro continua a diminuire. Le conseguenti spinte inflattive stanno erodendo ulteriormente il potere di acquisto dei cittadini. Le cause di tale situazione sono molteplici. Nel mese di giugno dell’anno scorso, è entrato in vigore il Caesar Act, approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel dicembre del 2019. Questo impone sanzioni molto severe sul regime di Assad, colpendo le imprese straniere intenzionate a fare affari con Damasco. Tale misura impedisce anche a soggetti privati di fornire assistenza e sostegno finanziario.

Inoltre, i danni della guerra al sistema produttivo obbligano a importare quasi tutto, assottigliando sempre di più le riserve in valuta estera della banca centrale. A questo si aggiunge la crisi economica e finanziaria del Libano, dal quale i siriani importavano una parte dei beni, eludendo le sanzioni. Il regime non riesce a riportare la situazione sotto controllo, nonostante gli aumenti salariali dei dipendenti pubblici e delle forze di sicurezza. E sarà sempre più difficile mantenere il livello attuale di sussidi alla popolazione.

Sul piano politico, la guerra civile sembra entrata in una fase di stallo. Assad è riuscito a sopravvivere grazie al sostegno della Russia, dell’Iran e dei gruppi armati della galassia sciita, sostenuti da Teheran. Ma l’appoggio di tali attori non è illimitato.

Mosca è consapevole che gli Stati Uniti non le permetteranno di andare oltre un certo limite. I russi intendevano trasformare la Siria nella base per realizzare l’antico sogno di accedere ai “mari caldi”, estendendo la loro influenza sul Medio Oriente. Tale scelta era speculare al ritiro degli americani, rivelatosi tuttavia più propagandistico che reale. Obama e Trump erano inclini a privilegiare altri quadranti geopolitici, ma gli apparati di Washington hanno frenato i loro piani. La regione resta fondamentale per gli interessi degli Stati Uniti e un riassetto delle forze non può essere confuso con l’abbandono dello scacchiere mediorientale.

La Russia deve tenere conto anche della Turchia. Questa è ostile ad Assad e cerca di approfittare della debolezza del regime per estendere la sua influenza sul nord della Siria, amministrato dai curdi. Lo scopo è di impedire che questi possano fornire sostegno al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), designato come gruppo terroristico. Ankara mira anche a controllare una parte delle ricchezze della Siria. In particolare, i turchi sono interessati al petrolio al confine con l’Iraq e alle acque dell’Eufrate, considerate indispensabili per lo sviluppo agricolo dell’Anatolia.

Un anno fa, la Russia e la Turchia hanno raggiunto un accordo per imporre un cessate-il-fuoco su Idlib. Questa città è l’ultimo bastione nelle mani dei gruppi armati ostili ad Assad, oggetto di una sanguinosa campagna militare per riprenderne il controllo. Le due potenze hanno concordato di istituire un corridoio di sicurezza per collegare l’area ad Aleppo e alla costa mediterranea. Inoltre, sono previsti pattugliamenti congiunti per garantire la tregua. La maggioranza dei gruppi ribelli, comprese alcune formazioni islamiste, ha accettato il compromesso, che però le forze lealiste hanno ignorato in numerose occasioni.

Idlib e il nord-ovest siriano restano l’unica area del Paese, che il regime non è riuscito a riprendere. Le regioni curde hanno acquisito ampia autonomia e hanno raggiunto un modus vivendi con Damasco. Assad non è però in grado di esercitare un controllo effettivo e capillare sul resto del Paese, soprattutto nelle zone un tempo dominate da Daesh. In queste aree, sono ancora presenti combattenti del sedicente Stato islamico, che ricorrono alle tecniche della guerriglia e degli attentati.

Il regime si fonda anche sul sostegno da parte delle milizie sciite, meno efficaci rispetto al passato. Esse ricevono armi e finanziamenti dall’Iran, che riesce a proiettare la sua influenza nella regione con sempre maggiore difficoltà. Le sanzioni volute da Trump ne hanno strangolato l’economia, svilendo le velleità egemoniche degli ayatollah. Inoltre, la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso in un raid statunitense all’inizio dell’anno scorso, ha privato la Repubblica islamica del principale costruttore di quel crescente sciita, che Teheran ambiva a estendere dal confine con il Pakistan alle coste del Mediterraneo.

Il quadro della Siria, a dieci anni da quelle proteste cariche di speranze e aspettative, è dunque desolante sia sul piano economico che dal punto di vista politico. Le Nazioni Unite, che non hanno brillato in quanto a capacità di impedire che la guerra civile annoverasse infiniti episodi di barbarie e di violenza, si stanno impegnando a favorire le discussioni del Comitato costituzionale. Questo riunisce i rappresentanti del regime e dell’opposizione per giungere a una soluzione politica. Ma i risultati, per il momento, sono limitati. Né le potenze coinvolte sono disposte a rinunciare a raccogliere i frutti degli investimenti economici e militari a favore dei loro protetti siriani. Nel frattempo, il Paese continua a sprofondare nell’incertezza e in periodiche fiammate di violenza. E la sua storia, spezzata dieci anni fa, non è stata ancora ricomposta.

Foto: radiopopolare.it