Nei giorni scorsi si è parlato molto di Iran. Il 18 giugno, 60 milioni di cittadini della Repubblica islamica sono stati chiamati alle urne per eleggere il presidente. I media occidentali hanno rispolverato le vecchie etichette di “conservatore” e “riformista” per orientarsi, senza troppo successo, tra i candidati di un Paese a loro sconosciuto. Più bravi a riportare il pettegolezzo della piazza e il gossip su politici e calciatori, i giornalisti nostrani, con qualche sublime eccezione, hanno evitato con cura di chiedersi perché abbia vinto Ebrahim Raisi. Così come sono rimasti a distanza di sicurezza dal racconto delle inquietudini della società persiana e del regime degli ayatollah. Anche il quesito sulla posizione interazionale di Teheran è rimasto inevaso. A questi tre interrogativi cerco di dare una risposta.

L’ottavo presidente della Repubblica islamica è stato eletto con il 62% dei voti espressi e comincerà il suo mandato quadriennale agli inizi di agosto. Qualificato come ultraconservatore, Ebrahim Raisi ha alle spalle una lunga carriera pubblica, cominciata nel 1979, poco dopo la rivoluzione khomeinista. Nel marzo del 2019, la Guida suprema, Ali Khamenei, lo ha nominato al vertice della magistratura, dopo essere stato procuratore generale dell’Iran tra il 2014 e il 2016.

Nato nel 1960 a Mashhad, città di frontiera a 70 km dal confine con il Turkmenistan, il nuovo presidente ha vinto al primo turno. Il Consiglio dei Guardiani, che gestisce il processo di selezione dei candidati, aveva ammesso 7 aspiranti alla presidenza. Il Consiglio è un organo costituzionale composto da 12 membri. La metà di questi è formata da religiosi di nomina diretta da parte di Khamenei, succeduto all’ayatollah Khomeini nel 1989 alla testa del Paese. L’altra metà è designata dal potere giudiziario, dipendente in larga misura dalla Guida suprema, con l’approvazione parlamentare.

Il Consiglio vigila, tra le altre cose, sul rispetto dei requisiti previsti dalla Costituzione per correre alle elezioni presidenziali. L’ultima parola spetta comunque alla Guida suprema, che quindi può orientare in maniera pesante l’esito della votazione. È proprio quanto accaduto nelle settimane passate, a seguito della presentazione di circa 400 candidature. Il processo di selezione si è rivelato particolarmente rigido questa volta, tanto da suscitare malumori anche tra chi si considera vicino alle posizioni dell’establishment religioso. È il caso di Mahmud Ahmadinejad, presidente tra il 2005 e il 2013, tradizionalista laico, contrario a qualsiasi apertura verso americani, israeliani e Paesi arabi.

La possibilità di pilotare l’esito delle elezioni, nonostante un certo margine di imprevedibilità, dà informazioni sull’orientamento che la Guida suprema intende imprimere alla politica nazionale. L’Iran sta attraversando un momento di grande difficoltà a causa dell’isolamento della sua economia voluto dagli Statu Uniti. La pandemia di Covid-19, che ha colpito il Paese con particolare virulenza, ha ulteriormente deteriorato il quadro generale.

L’amministrazione di Donald Trump scelse la strategia della massima pressione su Teheran per stroncare le sue ambizioni egemoniche regionali. Il coinvolgimento nella guerra civile siriana a fianco di Bashar al Assad, il controllo del Libano tramite Hezbollah, il sostegno ad Hamas a Gaza e ai ribelli Huthi in Yemen, il finanziamento di formazioni politico-militari in Iraq, avevano fatto del regime iraniano un attore capace di destabilizzare i già delicati equilibri del Medio Oriente. Washington non esercita più quel controllo sulla regione, che caratterizzò l’approccio americano del secondo Novecento. Ma gli Stati Uniti non sono disposti a tollerare che emergano soggetti in grado di proiettare la loro primazia su un’area considerata ancora strategica.

La decisione americana di uscire dall’accordo sul programma nucleare di Teheran, firmato dall’amministrazione Obama nel 2015, non era dunque dettata dalla paura che gli ayatollah si dotassero della bomba atomica – cosa peraltro alquanto improbabile. La volontà dello Stato profondo statunitense era di impedire la creazione di un crescente sciita, esteso dal confine con il Pakistan alle coste del Mediterraneo. Le sanzioni hanno isolato de facto l’Iran dal sistema economico e dai circuiti finanziari internazionali. Il PIL ha subito una contrazione del 12% tra il 2018 e il 2020 e l’inflazione galoppante ha eroso il potere d’acquisto dei cittadini. Non è un caso che manifestazioni violente abbiano luogo sempre più di frequente da tre anni a questa parte, nonostante la repressione del regime.

Il 60% della popolazione ha meno di 30 anni. I giovani hanno quindi conosciuto la rivoluzione del 1979 solo attraverso la narrazione idealizzata delle istituzioni e della propaganda. Non sorprende che la carica ideologica e la creazione del consenso mediante la retorica dell’assedio da parte dei nemici esterni siano molto sbiadite. Le ultime generazioni di iraniani non sono molto diverse da quelle occidentali, almeno nella dimensione post-storica. Questa privilegia l’attenzione alla qualità della vita e al progresso sociale piuttosto che alla grandezza nazionale e alla volontà di dominio. E il regime è consapevole che si può rallentare ma non arrestare la caduta del muro che separa i giovani dal resto del mondo.

Tale quadro ha suscitato nell’establishment di Teheran l’istinto primordiale di autoconservazione. La sua manifestazione più evidente sta proprio nella scelta di favorire quanto più possibile l’elezione di Ebrahim Raisi. Il nuovo presidente ha infatti dimostrato di condividere in pieno il pensiero tradizionalista ma pragmatico della Guida suprema. In questo modo, il regime non corre il pericolo di aperture troppo ampie da minarne la stabilità. Ma può comunque contare su un certo grado di realismo per affrontare le sfide del presente, mostrandosi resiliente.

Il rischio è infatti di alienarsi completamente dal resto del corpo sociale, perdendo la percezione dell’umore e delle aspirazioni degli iraniani. Inoltre, Raisi è considerato un possibile successore di Khamenei, che ha 82 anni e una salute precaria. Il presidente può aggiungere il suo incarico istituzionale alle competenze teologiche e di giureconsulto necessarie per diventare la terza Guida suprema della Repubblica islamica. Anche perché il tentativo di Khamenei di lasciare il posto al figlio Mojtaba è osteggiato da chi teme la creazione di una carica dinastica.

Raisi potrebbe rappresentare il trait d’union tra la generazione della rivoluzione e quella successiva, cresciuta durante la guerra con l’Iraq del 1980-88. Senza però correre il rischio che il passaggio a una classe politica più giovane destabilizzi il regime. La fase di transizione nel rispetto della tradizione avviata dall’Iran non può prescindere dal quadro internazionale. Teheran non può sostenere ancora a lungo un’economia di guerra senza pagare il prezzo di un malcontento popolare che cresce ogni giorno di più. Per questo è necessario trovare un’intesa con gli Stati Uniti per una tregua duratura, che verrà mascherata ancora come accordo sul programma nucleare. La progressiva rimozione delle sanzioni consentirà all’Iran di aumentare le esportazioni petrolifere, riprendendo la vendita ai Paesi ora allineati a Washington.

Il presidente Biden si pone in continuità con Trump nella gestione dei rapporti con Teheran. E non potrebbe essere diversamente, poiché sono gli apparati e non tanto la Casa Bianca a definire la linea americana. L’obiettivo massimo di provocare il crollo del regime degli ayatollah sotto il peso della rabbia popolare innescata dalle difficoltà economiche non è stato raggiunto. Però l’Iran non rappresenta più, almeno per il momento, un attore capace di proiettare la propria egemonia su tutto il Medio Oriente. Soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, principale artefice del tentativo di costruzione del crescente sciita.

Per questo, entrambi i contendenti, seppur da posizioni di forza agli antipodi, sono interessati all’intesa, che verrà formalizzata nei prossimi mesi. Sicuramente la retorica di Raisi sarà più dura rispetto al moderato Rohani, ma la strada sembra già tracciata e non modificabile per evitare che l’Iran, al bivio della Storia, imbocchi una via insicura e faticosa.

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